Nicola Zingaretti non è un ingenuo e conosce perfettamente l’esistenza delle correnti nel partito di cui da ieri è segretario dimissionario. A maggior ragione sa che l’essenza di una forza politica tendenzialmente di governo consiste certamente negli ideali di fondo e nei valori condivisi, ma anche con l’aspetto meno nobile della politica, il più prosaico, ovvero le ambizioni personali, i desideri individuali, le megalomanie: in una parola, le poltrone.
Se queste sono le motivazioni ufficiali dell’addio, che pure potrebbe essere ritirato nell’assemblea nazionale della settimana prossima, occorre indagare un po’ più da vicino. Nessun leader è talmente ingenuo da immaginare di essere creduto quando dice “me ne vado perché in questo partito si parla solo di poltrone”. Né regge l’altra motivazione, quella dello stillicidio volto a colpire lui, il segretario.
In un partito ci si può confrontare e anche scontrare a viso aperto, è il principio della democrazia. E allora, perché fuggire come se si trattasse di un delitto di lesa maestà? Convocare un congresso, questa sì sarebbe stata una scelta comprensibile, perché nel Pd si agitano formulazioni diverse e prospettive politiche spesso divergenti e non su argomenti marginali. Perché allora le dimissioni, e non il congresso?
La resa di Zingaretti ha un pregio: rende indispensabile, anticipandola, l’ennesima resa dei conti in questo partito che non sa trovar pace e che brucia un leader dopo l’altro pure abbarbicandosi tuttavia ai governi che passano in forma permanente. Banalmente viene da chiedersi: a cosa serve oggi il Pd? Ci sono un Renzi uscito a destra, un Bersani uscito a sinistra, e sono gli ultimi due segretari nazionali. Sul tavolo giacciono due opzioni politiche sulle quali un confronto e una decisione democratica ai più ampi livelli dovrebbero assegnare al partito la direzione di marcia: il patto con Giuseppe Conte e quel che sarà della forza “moderata e liberale” pronosticata da Luigi Di Maio per il futuro dei Cinque Stelle oppure il rilancio di una prospettiva dichiaratamente europeista e riformista che funga da catalizzatore delle diverse forze centripete nate negli ultimi tempi nel paese e in via di consolidamento (Calenda, Bonino, ecologisti, sardine).
Un partito forte, il solo che abbia conservato una struttura organizzativa tradizionale nel paese con i circoli, le federazioni e gli addentellati nella società ha bisogno come dell’ossigeno di una visione di fondo nella quale riconoscersi. Il problema del Pd è che non riesce a definire se stesso: non è di sinistra ma un po’ sì, non è socialista perché ancora non si può dire, non è laico perché ha al suo interno una forte componente cattolica, non è ovviamente comunista ma accoglie moltissimi nostalgici del vecchio Pci. Ha un suo piccolo mito da coltivare, soprattutto al Nord, che è il mito della Resistenza. Ma gli anni passano, il Novecento si allontana, qualcosa di più attuale non stonerebbe.
Quale che ne siano le vere ragioni, Zingaretti ha impresso una svolta non solo al suo partito. La mossa delle dimissioni apre una stagione di tensioni ulteriori in una delle forze fondamentali che reggono l’impalcatura del governo Draghi. È possibile che tali tensioni indeboliscano la tenuta dei dem nel rapporto con l’esecutivo: la conseguenza più sciagurata consisterebbe nel regalare Draghi al centrodestra, come taluni avrebbero intenzione di fare tramite il matrimonio di interesse con Conte e Grillo. Il patto strategico con l’ex premier condurrebbe verosimilmente al Pd un ruolo di marginalità politica e conseguentemente di potere. A quel punto la preoccupazione di Zingaretti sarebbe superata: nel partito si parlerebbe meno di poltrone, perché rimarrebbero solo quelle di seconda e terza fila.
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Amara e splendida analisi che dovrebbe arrivare alle alte sfere!
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