di Elisa Alloro – “Rinnovarsi rimanendo se stessi è una cosa difficile, ma penso di esserci riuscito”.
E’ “D.O.C.”, l’atteso nuovo disco d’inediti di Zucchero “Sugar” Fornaciari, che racconta così, con grande trasparenza e naturalezza, a poche ore dal lancio mondiale, il suo capolavoro a “denominazione d’origine controllata”.
Anticipato dal primo singolo “Freedom”, un inno alla libertà scritto a quattro mani insieme all’artista britannico Rag’n’Bone Man, “D.O.C.” è un concentrato di autenticità e genuinità: “contemporaneo, attualissimo nei suoni, negli arrangiamenti, nel dosaggio equilibrato di strumenti organici e sintetici; un grande lavoro frutto di un anno e mezzo di ricerca, con incursioni nel soul, nell’R&B, nel blues, nel gospel, nel pop e un po’ di progressive. Dalla pre-produzione nel mio studio Lunisiana Soul con l’amico produttore-musicista Max Marcolini, ormai al mio fianco dal ’98, alla realizzazione tra Islanda, Los Angeles e San Francisco con diversi giovani produttori e musicisti quasi indie, provenienti da diversi paesi, come Nicolas Rebscher (Germania), Joel Humlén (Svezia), Ian Brendon Scott & Mark Jackson (USA), Steve Robson (UK) e Eg White (USA), tutti diretti e amalgamati da me e Don Was (my brother in blues)”.
Guardando i crediti, un condensato di perle di grande valore artistico: dagli incredibili musicisti (Jay Bellerose, Matt Chamberlain, Regine McCrary, un fantastico coro gospel, Real Horns, Federico Biagetti, Jon Hopkins e Chance), ai quattro diversi ingegneri del suono, tra i migliori al mondo (Manny Marroquin, Mike Piersante, Brendan O’Brien e Krish Sharma); dalle collaborazioni con giovani artisti, tra cui l’eterea Frida Sundemo, alla presenza di co-autori e amici di lunga data come Francesco De Gregori, Pasquale Panella e Davide Van De Sfroos.
Un album capace di “urtare” la pacatezza di alcuni colleghi, proverbialmente posati, incapaci in questo caso di contenere il ritmo, impossibilitati a tenere gambe e braccia conserte.
Un album, che come continua a raccontare Zucchero, era destinato a non avere un nome, con la casa discografica già in allarme:
“”Tempi sospesi”, “Tempi sospettosi”… mancava sempre qualcosa; “Suspicious times”, troppo anglofono… Poi un giorno, ero in campagna e parlavo con i contadini a proposito di cominciare a fare prodotti di origine controllata, di andare sul bio, ed è arrivato D.O.C. un nome corto, facilmente riconoscibile in tutto il mondo, dal significato pregnante rispetto ai contenuti del disco; ecco, quello poteva essere il titolo dell’album. Poi ho scoperto che vuol dire anche “disturbo ossessivo compulsivo” e quindi, ho pensato, è comunque perfetto, mi rappresenta”.
Ci ride su, ma è un album di cui – più volte ricorda – è geloso, al punto che se lo sarebbe quasi tenuto per sé:
“Una volta fuori, ognuno lo fa suo nel bene o nel male… sono geloso, dicevo, perché é̀ molto mio, nell’intimo, nel senso che gli 11 brani di “D.O.C.” rispecchiano esattamente il mio stato d’animo attuale, quello che penso, quello che sento, in modo più libero e diretto rispetto al passato, senza troppi fronzoli; in un certo modo, più semplice ma più complesso. Quando ho finito di scrivere i testi, dopo aver selezionato le 11 tracce tra le oltre 40 provinate, rileggendoli, ho scoperto, come se fossi stato in trance mentre li scrivevo, che in ogni brano c’è un leggero inizio di redenzione”.
Ed è qui che mi allaccio, chiedendogli quanto contino le radici per un uomo che ha fatto delle contaminazioni e della libertà il proprio vessillo e che il mondo lo ha davvero sbranato fin dagli esordi. Si cita per la prima volta Roncocesi, il paese natio, in “Testa o Croce”; nei cori di “Badabum” come nella chiusura di “Tempo al Tempo” ritorna il dialetto reggiano e quella terra da cui è stato in qualche modo “sradicato” da piccolo, lasciandogli però il sapore delle cose vere e chissà che il “ritorno” faccia parte di questo percorso di redenzione di cui parla nel raccontare D.O.C.:
“Io sono malato delle radici, più vado avanti negli anni più le radici diventano più forti. Le ho messe anche nella copertina, c’è un campo di “solco”, che sarebbe un ibrido del mais, più rustico; le radici sono qua. Mi piace usare qualche frase ogni tanto in dialetto perché con poche parole, come accade un po’ per l’inglese, si riesce ad esprimere un concetto che in italiano non ci sta, avrebbe bisogno di più metrica. Poi, fa parte del fatto di essere genuino. Quando sono in giro per il mondo penso alla mia infanzia e sono felice: “mò ch’ dû maròun” è più bello che dire “due palle”. Il dialetto è più caldo. Se penso a Pavarotti, che era universalmente grande, penso a noi e al fatto che parlassimo in dialetto quando ci vedevamo. Ai Grammy Awards, lo stavano per nominare “Uomo dell’anno” e c’era uno che lo annoiava, beh, si è girato e mi ha detto “mo ‘sa vōl cus che”… dai, è tutta un’altra storia”.
Torna – poi – sul “bel Paese”, quello che è stato però e non è più. La sua vita “country”, così come lui stesso definisce, fatta di pochi amici, di un piccolo borgo che ti protegge anziché approfittare di te: “E’ una vita di qualità. Vorrei che la gente si manifestasse interamente nuda, per quella che è. In “Vittime del cool” parlo di questo. Nessun doppio senso, mi sento solo contornato da gente che ha l’atteggiamento da star, che vuole esser appunto “cool” a tutti i costi, senza sapere nemmeno bene cosa sia magari”.
E si riallaccia a “Freedom”, parola sfruttatissima – dice – ma banalizzata, perché: “se penso alla libertà, a quella vera, vedendo quello che sta succedendo nel mondo, io me lo sono dimenticata”.
>>> Il video del brano (Freedom), diretto da Gaetano Morbioli
L’album, composto da 11 brani e 3 bonus track, disponibile in 3 versioni – CD, Doppio Vinile e in una versione Doppio Vinile speciale color arancio (edizione limitata in esclusiva per Amazon) – verrà presentato live in tutto il mondo, con un calendario in continuo aggiornamento.
Si partirà dall’Australia ad aprile 2020 per arrivare in Italia il prossimo settembre all’Arena di Verona, luogo definito da Zucchero come «uno dei più bei posti al mondo per fare musica», per le uniche date italiane del tour mondiale.
Grazie all’aggiunta di due nuove date, il 24 settembre e l’1 ottobre, saranno dodici i giorni consecutivi nella splendida cornice dell’anfiteatro veronese, un record, che si aggiunge ai tanti già raggiunti da uno degli artisti italiani più amati e apprezzati nel mondo.
Sold out garantito, quindi chi volesse non farsi sfuggire l’occasione è meglio che sappia che i biglietti sono già disponibili in prevendita sul sito di TicketOne e dalle ore 11.00 di giovedì 14 novembre nei punti vendita abituali.
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Amara e splendida analisi che dovrebbe arrivare alle alte sfere!
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