Duecentoventiseiesima lettera alla comunità al tempo della conversione
Tra le parabole che Gesù racconta nel vangelo, forse la più nota è quella del Figliol Prodigo, che ora è chiamata “del padre misericordioso”. In effetti, il protagonista della storia è il padre, che accetta l’umiliazione di essere rifiutato dal figlio minore e che, quando lo scavezzacollo ritorna a casa, lo abbraccia e bacia e fa festa, senza appurare l’effettiva volontà di pentimento e di riparazione dell’offesa.
C’è però un altro personaggio, che nella sua durezza qualche buona ragione ce l’ha: è il fratello maggiore, quello bravo: “Io ti ho obbedito sempre, ma per me non hai fatto una festa; ora però che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso” (Lc 15,30). “Questo tuo figlio”: è roba tua, non mia; per me poteva essere morto, per quel che mi importava.
Il padre si giustifica: “Figlio, tu sei sempre con me; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita”. “Tuo fratello”: il padre restituisce al figlio rancoroso il fratello minore, con una sfumatura importante: in greco, figlio si dice hyiòs e così è chiamato nella parabola il prodigo; ma il padre, quando si rivolge al maggiore, lo chiama teknon, con una sfumatura affettiva: “figliolino”, come se dicesse: “Per me siete ugualmente preziosi”. È proprio questa uguaglianza che il figlio maggiore non accetta. Egli non vuole partecipare alla gioia del padre, perché per lui sono importanti i comportamenti. Perdono, sì, ma quando avrà ammesso le sue colpe e avrà dimostrato di aver imparato la lezione.
Ci troviamo di fronte al grande tema della misericordia e del perdono. Gesù viene accusato di accogliere gratis i peccatori e in effetti capiamo lo scandalo dei suoi contemporanei, per i quali il rapporto con Dio era mediato dall’osservanza della Legge mosaica. Noi ci scandalizziamo di meno, perché pensiamo che, tutto sommato, a Dio costi poco perdonare e anche perché per noi il perdono non è una cosa troppo seria. Ma quando il male si mostra nella sua velenosità distruttiva, allora emerge la durezza del cuore. Anche noi abbiamo buone ragioni: pensiamo alla guerra, ma anche a tutte le situazioni nelle quali facilmente diciamo: questo non è mio fratello. La durezza del cuore si mostra spesso nelle parole, dure, violente, con le quali, di fatto, neghiamo il diritto dell’altro a esistere. Per questo, papa Francesco esorta a disarmare le parole, per disarmare i pensieri e infine per disarmare le nostre azioni. C’è un indurimento generale, che si mostra nella fiducia cieca nella forza, in Ucraina come in Israele; oppure nell’atteggiamento verso i migranti, che diventano invasori da respingere, anche donne e bambini.
Ma rimane la domanda: perdono, accoglienza, tutte queste belle parole, quanto ci costano? Ma, soprattutto, quanto costano a Dio? Sono retorica, mantra ripetuti senza farsi carico della pesantezza del loro significato e delle loro conseguenze?
Per Dio non è così. Il padre della parabola esce alla ricerca del figlio maggiore, che non vuole far festa, e lo supplica: ancora una volta, il vangelo usa una parola affettiva, parakaléin, che significa anche “consolare”. Il padre vuol parlare al cuore: vuole spezzare le pietre che vi crescono e che aspettano di essere lanciate. Non c’è giudizio, non c’è esclusione, ma solo affetto.
La cosa interessante è che lo stesso verbo viene usato da san Paolo senza simbolismi, in uno dei testi più densi e forti delle sue lettere: “Per mezzo di Cristo siamo ambasciatori, è Dio stesso che vi supplica; vi preghiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio” (2Cor 5,20). Questa immagine di un Dio che supplica la sua creatura è di una forza imparagonabile. Ma ancora il dubbio permane e allora l’apostolo presenta la prova: “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio”. Accogliere la supplica di Dio libera le coscienze e l’intelligenza. Tutti siamo figli, perché tutti ugualmente amati e perdonati.
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