Tutti noi indossiamo una maschera

Don Giuseppe Dossetti -1

Tutti noi portiamo una maschera e non perché è carnevale. Pensiamo che ci sia richiesto dal ruolo che rivestiamo, oppure per apparire quello che vorremmo essere e non siamo; o anche per difenderci dallo sguardo degli altri, per nascondere ai loro occhi le nostre debolezze. Spesso, vogliamo nasconderci a noi stessi.

Mi piacerebbe conoscere le profondità del cuore dei tanti attori di questa triste stagione. Che cosa provano veramente coloro che ordinano di distruggere le città, di fare scempio di giovani che cantano e danzano, di lanciare bombe su una popolazione in fuga? Non solo di questi vorrei sapere, ma di ogni persona umana che incontro. Gli antichi riassumevano la sapienza nella massima “Conosci te stesso”, ma forse è proprio da questo che vogliamo fuggire.

Tuttavia, prima o poi, ci affacciamo a quello che il Salmo 130 chiama “il profondo”: “Dal profondo a te grido, o Signore!”. Il salmista, però, non si è fermato alla contemplazione dell’abisso, ma ne ha tratto motivo per rivolgere la sua invocazione: “Se consideri le colpe, Signore, Signore, chi ti può resistere?”. Non ci sono maschere o scuse di fronte a Dio; ma ci può essere l’umile richiesta: “Con te è il perdono … Io spero, Signore. Spera l’anima mia, attendo la sua parola. L’anima mia è rivolta al Signore più che le sentinelle all’aurora”.

Oso dire, con timore e tremore, che forse è proprio la sofferenza a far giustizia della nostra presunzione e a rivelare a noi e agli altri la nostra povertà. Chi si sente povero, povero dentro, chi ha cercato e non ha trovato, chi ha misurato i limiti della sua buona volontà, costui non fa la guerra.

Il vangelo che si legge in questa domenica parla di un lebbroso, che si avvicina a Gesù con umile supplica: “Se vuoi, puoi guarirmi” (Mc 1,40-45). La Legge prescriveva a questi malati di star lontani dalle altre persone: questo lebbroso infrange le regole, ma Gesù fa peggio, toccando quel povero corpo, come un giorno farà un suo discepolo, Francesco. Non era necessario: tante volte, Gesù guarisce con una semplice parola. Qui, però, non c’è solo da guarire, ma da restituire una dignità, da riammettere nella comunità umana. Il prezzo che Gesù paga consapevolmente è il contagio della miseria umana. Egli non è un mago, ma si fa povero con i poveri, lebbroso con i lebbrosi.

“Il mio cuore ripete il tuo invito: <Cercate il mio volto!>. Il tuo volto, Signore, io cerco, non nascondermi il tuo volto”, così recita un altro Salmo (27,8s.). Ma Dio ha un volto? Di certo, non ha una maschera, non è un idolo (éidolon può significare appunto maschera). Tuttavia, Egli resta l’Irraggiungibile, finchè non acquisisce un volto umano in Gesù. Ma questo volto non è un volto qualunque, è quello del Crocifisso, dell’ultimo degli uomini: “Signore Gesù, crocifisso e risorto, immagine della gloria del Padre, Volto Santo che ci guardi e ci scruti, misericordioso e mite”: così inizia una preghiera recitata davanti al Volto Santo di Lucca. Questo volto rivela l’uomo a se stesso: tutti ugualmente miseri, come il lebbroso, e tutti ugualmente amati.

La Quaresima, che inizia questo mercoledì, potrebbe essere un percorso di verità, ma anche di rinnovata comunione tra gli uomini. Infatti, dovrebbe essere meno difficile riconoscere il proprio volto in quello dell’altro e riconoscere in ogni volto il volto di Cristo; almeno, dovrebbe esserlo per i suoi discepoli. La Chiesa è “cattolica”, cioè universale, proprio perché la fede dovrebbe impedire al cristiano di mettersi la maschera e di metterla agli altri. Non sempre ci si riesce e allora nascono gli “scismi”, cioè le separazioni e le contrapposizioni. La Quaresima è una buona occasione per chiederci a che punto siamo.