Il 5 dicembre 1930 venne recapitata a Turati una lettera senza firma e data di Velia Matteotti, la vedova del martire socialista. Da quattro anni Turati era esule a Parigi con tanti altri antifascisti di ogni fede politica.
Molti suoi compagni e carissimi amici, a partire da Matteotti, Prampolini e dalla sua indimenticabile compagna Anna Kuliscioff, erano deceduti, mentre lui continuava, anche lontano dal suo paese, la loro comune battaglia.
Ormai in età avanzata, aveva 73 anni, malfermo di salute, ma sempre desideroso di contribuire alla causa del socialismo e del ritorno delle libertà civili e democratiche in Italia, era circondato dall’affetto di tanti compagni.
L’amicizia con Velia Matteotti si era consolidata fin dal rapimento e dalla uccisione nel 1924 del segretario del Psu. In quel tristissimo periodo non passava giorno che Turati non facesse visita alla vedova e alla madre del martire per accertarsi delle loro condizioni psico-fisiche.
Nata a Roma il 12 gennaio 1890 da Amabile Sequenza e Oreste Titta, Velia aveva sposato, nel 1916 e con cerimonia civile in Campidoglio, Giacomo Matteotti dopo quattro anni di fidanzamento. Dal loro matrimonio erano nati tre figli, Giancarlo, Gianmatteo e Isabella.
Sorella del famoso baritono Titta Ruffo, aveva studiato presso scuole religiose e si era licenziata alla Scuola Normale femminile di Pisa, coltivando la passione della scrittura. Quando conobbe Giacomo aveva già pubblicato due libri di poesie, mentre nel 1920, con lo pseudonimo di Andrea Rota, era uscito il romanzo L’idolatra.
Erano trascorsi dunque sei lunghi e sofferti anni dall’assassinio del marito ma l’affetto che la legava a Turati e a tanti altri compagni non era scemato e Velia sentiva di dover ora essere lei accanto al maestro del suo Giacomo.
Quella riportata è una lettera affettuosa, piena di ricordi belli e struggenti ad un tempo, di ammirazione e di rinnovata stima per l’uomo e il politico che con il senno di poi appare essere anche un po’ come commiato. Turati morirà nel marzo del 1932. Lei invece si spegnerà sei anni dopo, nel 1938, a soli 48 anni. Elisabetta Garzarolo, la madre del martire socialista, era morta nel 1931, quindi un anno dopo l’invio della lettera qui riportata.
La lettera, che come detto non porta data e firma, forse per non incorrere nella censura fascista e non essere sequestrata, era stata affidata a un fedele amico, che non tardò a recapitarla al suo destinatario.
Si tratta di una preziosa testimonianza del suo amore e della sua infinita gratitudine nei confronti del grande “vecchio” del socialismo italiano. È una lettera dai toni familiari che avrebbe potuto essere scritta da una sorella o da una figlia affettuosa e preoccupata.
“Carissimo, solo perché sappiate che vi ho profondamente nel cuore, che seguo con ansia e con speranza le notizie rare, buone e non buone della vostra salute.
Solo perché sappiate che qualche volta mi giunge la vostra voce mentre pronuncia il credo a cui avete offerto tutta una vita di virtù e di sacrificio.
In cuor mio benedico quella voce, passo dalla vostra casa, la saluto con dolore ma con fortezza; e qualche volta passo anche da una tomba che vi è cara (Kuliscioff), Le porto per voi la carezza di tutti i vostri affetti che la vigilano; le rivolgo la preghiera di starvi a fianco, perché vi serbi a noi, vi dica come noi non sappiamo, con la sua parola che più di tutte conoscete, che non siete esule, ma solo poco lontano da noi, in una sosta che vi permetta il rispetto delle vostre forze e delle vostre opere, le quali unite a quelle di altri cari, sono il più puro testamento di onestà e di valore per l’infelice nostro paese.
Vi prego dunque di guardarvi, e potervi in ogni momento, sempre, consolare di tutti gli affetti che qui avete lasciati, i quali sono e saranno sempre vostri attraverso qualunque vicenda”.
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