“La caratteristica essenziale della personalità di Treves fu l’alleanza di una ragione potente e sottile con la passione di un profeta del Vecchio Testamento”. Carlo Rosselli.
Quando l’Italia dichiarò guerra ed entrò nel Primo grande conflitto mondiale, Claudio Treves (nella foto – 1869-1933) non ebbe dubbi a riaffermare il suo convinto pacifismo e con rara preveggenza volle spegnere sul nascere ogni facile ottimismo circa l’esito del conflitto: “Non sarà un duello, ma sarà la tragedia, l’ecatombe, il macello, la conflagrazione europea, di tutti i popoli e di tutte le genti, vasta ed orribile, oltre ogni memoria di stragi nella storia d’Europa”.
Mentre l’Internazionale socialista mostrava tutti i suoi limiti e capitolava di fronte all’incalzare degli avvenimenti, e la frattura apertasi nel Psi con l’uscita di Mussolini metteva a dura prova le convinzioni pacifiste dei socialisti italiani, Treves, con Turati, Prampolini e tutta l’ala riformista, fu uno dei dirigenti del Psi che seppe dare testimonianza di grande coerenza politica e di una insuperabile elevatezza morale.
Nato a Torino da una famiglia ebraica, ottavo di nove figli, dopo una prima esperienza nelle file dei repubblicani e dei radicali della sua città, aderì al partito socialista fin dal congresso di Genova del 1892. Nello stesso anno completò gli studi laureandosi in giurisprudenza. Fin dai primi anni d’attività politica fu molto attivo nella propaganda pacifista, a partire dall’adesione al torinese “Comitato per la pace e la libertà”, subendo anche l’arresto e il carcere. La sua vera attività e la sua passione però si rivelò essere quella giornalistica. Oltre alla collaborazione a diversi giornali e periodici nazionali, fu corrispondente dell’Avanti! da diversi paesi europei, collaborò al periodico milanese Critica Sociale, per poi dirigere Il Tempo di Milano e dal 1909 al 1912, succedendo a Leonida Bissolati. il quotidiano socialista L’Avanti! Deputato dal 1906 al 1926, fu sempre un grande sostenitore dell’internazionalismo pacifista, sapendo ricondurre le sue convinzioni nell’ambito di un socialismo riformista e realista, lontano dalle astratte e pericolose istanze ideologiche del tempo.
Contrario alla guerra libica del 1911, ma anche allo sterile estremismo della Settimana Rossa, la sua opera e il suo pensiero si dispiegarono in due direzioni: se nel partito difese quanto rimaneva delle libertà statutarie e delle istituzioni popolari, cresciute nel paese proprio grazie al movimento socialista, sul piano internazionale ricercò e favorì sempre una soluzione del conflitto che fosse rispettosa dei diritti dei popoli, invocando l’azione diplomatica per una pace “senza vinti né vincitori”. Rifiutò con fermezza sia la prospettiva di volgere la guerra imperialista in guerra di classe, sia l’immobilismo dell’appello serratiano “Né aderire né sabotare”, che sembrava prevale nel partito. Lontano dal neutralismo di Giolitti giudicato mercantilistico e da quello a sfondo austriacante della politica vaticana, nel caso di Treves e di Turati si può parlare, infatti, di “neutralismo patriottico”. Si trattava in sostanza di preservare, anche nelle difficili contingenze in cui si trovava il Paese, i diritti legati al principio di nazionalità senza entrare in conflitto con altri stati, in un quadro di una rinnovata solidarietà tra i popoli. Il programma si presentò subito molto ambizioso, se non velleitario, vista anche l’impotenza dimostrata dall’Internazionale nell’opporsi al conflitto. Nei suoi scritti e nelle sue riflessioni pubbliche Treves si pose sempre il problema di dover preservare intatta la forza del partito a guerra finita e la capacità di manovra del suo gruppo dirigente, evitando ogni emarginazione o accusa di disinteresse circa le sorti del Paese. In campo internazionale rimarcò ogni spiraglio per una pace democratica che non comportasse annessioni, prevedesse l’indipendenza dei popoli balcanici e che implicasse il disarmo generalizzato.
Nonostante tanti segnali di malcontento dentro e fuori l’esercito italiano e austroungarico, il militarismo ebbe la meglio sugli Imperi centrali, portando all’entrata in guerra degli Stati Uniti.
Quando l’Italia dopo Caporetto (23-24 ottobre 1917) si trovò in serio pericolo, Treves lanciò l’appello “Resistere, ma intendere”, come monito al non inseguire l’oltranzismo interno e internazionale, comprendere i mutamenti degli strati proletari, le proteste della classe operaia e a riconoscere gli errori del militarismo tedesco. Il 12 luglio 1917 pronunciò alla Camera un celebre discorso nel quale affermò:
“Signori del mio Governo e di tutti i Governi d’Europa, udite la voce che sale da tutte le trincee in cui è squarciato il seno della madre terra; essa detta l’ultimatum della vita alla morte: il prossimo inverno non più in trincea”. Sempre nella prospettiva di preservare lo spazio politico necessario per il proletariato, una volta terminata la guerra, si rivelarono vani anche i tentativi suoi e di Turati di giungere ad una maggiore collaborazione con il Governo, se quest’ultimo si fosse adoperato per promuovere una conferenza internazionale, volta a raggiungere un dignitoso compromesso tra le parti in guerra, capace di porre le basi per una pace equa e duratura. Inutile dire come le critiche e i commenti a tale proposta si sprecarono a destra e a sinistra, dentro e fuori il partito.
Per tutto il periodo della guerra le proposte politiche dei riformisti continuarono dunque a differenziarsi notevolmente da quelle sostenute dalla linea ufficiale della direzione massimalista. L’antipatia politica e umana provata da Mussolini nei confronti di Treves nata già al momento dell’avvicendamento alla guida dell’Avanti! (dicembre 1912), raggiungerà il punto più alto nel marzo 1915, quando i due si sfideranno a duello, e non si placherà con il tempo. Il duello alla sciabola, svoltosi alla Bicocca di Niguarda, durò 25 minuti, fu violentissimo e terminò solo quando i padrini, vedendoli entrambi feriti, posero fine, dietro consiglio dei medici, allo scontro.
Nelle pagine trevesiane si riscontrerà sempre un tono di amarezza per “il contegno e la condotta più che cesaristica delle potenze vittoriose”, ed emergerà il presentimento che da quella battaglia decisiva per la pace tra i popoli uscisse perdente proprio il socialismo democratico che per Treves “sono stati i postulati di pace e di armonia e sono la sua più umana e civile sostanza”. In realtà nel dopoguerra, contrariamente a quanto da lui auspicato, si assistette al trionfo degli opposti estremismi: da un lato quello dell’imperialismo annessionistico delle potenze vincitrici, dall’altro quello dell’estremismo di classe suggestionato dalla Rivoluzione russa.
Treves, invece, rimase convinto che la conquista del potere da parte delle organizzazioni del proletariato passasse per una vasta opera d’educazione delle masse e all’entrata a pieno titolo dei socialisti nelle istituzioni.
Nel 1922 aderì al Psu di Turati e Matteotti, dirigendo La Giustizia, l’organo ufficiale del partito. Rifugiatosi in Francia nel 1926, partecipò attivamente alle iniziative degli antifascisti e diresse il settimanale della Concentrazione Antifascista, La Libertà. Morì a Parigi l’11 giugno 1933 di ritorno dalla commemorazione di Giacomo Matteotti. Le sue ceneri tornarono in Italia solo nel 1948.
Giuseppe Saragat sulla Libertà gli dedicò un personale ricordo delineando la figura di un uomo con “Una vita interiore intensissima, che un’aristocratica finezza morale dissimula: un’eloquenza appassionata che attinge talvolta la potenza delle invettive profetiche; una coscienza temprata all’ascetica disciplina del dovere, una penna indomabile sono le sue armi”.
Nel suo ricordo Carlo Rosselli scrisse: “…La caratteristica essenziale della personalità di Treves fu l’alleanza di una ragione potente e sottile con la passione di un profeta del Vecchio Testamento. La sua logica sconnetteva le tesi avversarie, ne dimostrava le interne contraddizioni traendone conseguenze così impensate da ridurle all’assurdo; ma quando si trattava della sua fede, del socialismo, della libertà, rinunciava ai sillogismi e la sua umanità traboccava.
Il socialismo di Treves, cresciuto in epoca positivista, fu una contraddizione continua tra la forma scientifica in cui egli tentava di racchiuderlo e la sua natura lirica e appassionata”.
In un biglietto consegnato allo stesso Rosselli perché lo consegnasse a Turati in procinto di partire per l’esilio francese, Treves nell’intento di sostenere la scelta estrema che il compagno di tante battaglie stava per assume, così si rivolse all’amico: “Filippo, partiamo. L’Italia non è più qui, sotto il tallone degli arrivisti e dei carnefici. L’Italia nostra, l’Italia proletaria, soffocata, dobbiamo farla rivivere al di là delle frontiere e preparare il riscatto. Tu solo, Filippo, puoi impersonarla. Vieni. Ti aspetto”.
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Amara e splendida analisi che dovrebbe arrivare alle alte sfere!
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