Salimmo a Milo di pomeriggio, all’ombra di lecci e castagni. Dinanzi l’azzurra vastità dello Ionio e, sulla sinistra, l’estremità meridionale della Calabria. Il silenzio era assoluto. Il fresco delle pendici dell’Etna, luogo di casa. Compresi allora che quel tempo e quello spazio accadessero insieme da millenni e scandissero il ritmo dell’eterno.
Pensai di avere svelato l’arcano della poetica di Franco Battiato: solo in quel luogo poteva accadere il miracolo della perfezione incondizionata e orientare la declinazione della bellezza. Vedevo l’antica Grecia, là in fondo. Osservavo i secoli scorrere sul filo del Mediterraneo. Il sole, quel sole alto, e quella luce incomparabile della Sicilia barocca. La traccia di un pensiero attraversò fulminea lo schermo della mia mente. Non poteva che attraversare il suo tempo qui, il maestro, nel suo imbrunire.
Il 29 marzo del 2016 era in programma un concerto di Battiato e Alice al Teatro Valli di Reggio Emilia. Giornata nerissima. Alice aveva la febbre alta e non riusciva ad alzarsi da letto. Franco arrivò nel pomeriggio all’Astoria senza voce. Tentammo una cura a base di potenti tisane allo zenzero. Non quelle delle bustine al supermercato: zenzero naturale forte da bruciare in gola. Lui si sottopose al trattamento senza discussioni. Indossava gli occhiali neri anche in hotel e mi parve cercasse un poco di protezione.
Avrebbe rinviato volentieri il concerto della sera, poi grazie allo zenzero e alle risorse più nascoste si avviò verso i camerini. Iniziò il concerto e fu uno strazio. Non azzeccò una nota delle prime tre canzoni. Poi ritrovò la voce oltre al coraggio e con l’amore incondizionato del pubblico ne venne fuori. Concerto memorabile, come si dice di solito. Ma è mai avvenuto che qualcuno non considerasse memorabile un concerto di Battiato?
L’anno precedente avevo avuto il privilegio di poterlo intervistare pubblicamente sul suo ultimo film, “Attraversando il Bardo”, girato in Nepal e dedicato alla visione del rapporto morte/rinascita nel buddhismo tibetano. La serata avvenne al teatro di Bibbiano, con due proiezioni del cortometraggio e altrettante conversazioni tra di noi. Credo riuscimmo ad approfondire i contenuti del magistero tibetano senza rendere noiosa la serata.
Ricordo che mi colpì l’intensità dell’affetto del pubblico per Franco. Camminare per strada con lui era un’impresa: sempre tanta gente addosso, sempre baci, abbracci, richieste di autografi. Ancora pochi selfie, rispetto ad oggi. La passione della gente certamente lo inquietava, oltre a dargli piacere. Ricordava spesso una scena ai tempi dell’uscita della “Voce del padrone”. Passeggiava in Galleria a Milano e venne riconosciuto e assalito dai passanti, ragazze soprattutto. Dovette correre in un bar per proteggersi, ma finì in mutande, letteralmente, senza altri vestiti da indossare.
Ora che il maestro ha lasciato il corpo, secondo tradizione, lo spirito disincarnato entra nello spazio del Bardo, di cui si diceva, e inizia l’attesa per trovare una nuova incarnazione terrena.
Il processo della legge karmica favorisce l’indirizzo appropriato. Dove se ne andrà quell’essere chiamato Franco che tanto abbiamo amato? Ovviamente non abbiamo risposte, ma una chiave di ingresso forse sì. Se nel buddhismo nulla esiste se prima non esiste nella nostra mente, possiamo osservare e dunque dare energia al mondo del visibile. Franco potrebbe essere ovunque lo vediamo: in un meriggio, nel vento tra gli alberi, sul treno per Tozeur o al Café de la Paix. Potremo ascoltarlo per sempre grazie alle sue opere. Chissà se tornerà a farci visita prima che si apra anche per noi la Porta dello Spavento Supremo. Proporrei di dargli retta: in questa o in altra forma, torneremo ancora. E sarà molto bello.
Ultimi commenti
Anche l' Ordine degli Avvocati di Reggio Emilia .
Amara e splendida analisi che dovrebbe arrivare alle alte sfere!
Diranno, sia a sinistra che a destra, che c'è un disinteresse della politica, in particolare dei giovani, diranno che molti non votano perché pensano che, […]