Ho scelto di intervistare Stefano Grasso, batterista di Milano classe ’92, perché penso che al giorno d’oggi scrivere e registrare un doppio album autoprodotto di composizioni proprie strumentali utilizzando un linguaggio di base jazzistico e una formazione come il piano trio sia molto coraggioso.
Se a questo aggiungiamo che l’album è costruito così sapientemente da sembrare un unico discorso con transizioni, tracce che contengono più momenti musicali diversi, lunghe attese e tensioni non posso che affermare di essere rimasto sbalordito dalla potenza immersiva di un’opera che definire jazz è, per una volta, riduttivo.
Per prima cosa, Stefano, volevo chiederti: com’è nata l’idea di formare il Fat Trio e da dove viene la scelta di un album “solista” per un batterista come te?
Il motore principale è stata la necessità. Penso che ogni cosa che facciamo dovrebbe essere guidata da questo istinto, dal bisogno di fare e in questo caso creare, senza starci troppo a pensare. Ho scelto il piano trio perché a livello timbrico, di registro, tra gli organici piccoli è sicuramente il più completo e inoltre in un momento storico dove si tende a infilare l’elettronica ovunque, questo album – che è totalmente acustico – vuole essere anche un omaggio alla tradizione, dal momento che vorrei rendere grazie a Bill Evans, Ahmad Jamal e tanti altri artisti che mi piacciono tantissimo e che porto con me sempre. In più ho scelto questa formazione per la sfida che si cela in questo organico così spoglio, che ti porta a dover cercare di superare sempre questo apparente limite con soluzioni diverse dal consueto.
La scelta delle persone con cui registrare però non è stata un caso.
No, infatti dire piano trio definisce in realtà solo un lato della scelta. Se Marco (pianoforte) avesse suonato la viola da gamba e Vito (contrabbasso) il theremin avremmo comunque registrato questi brani; in forma diversa, magari, ma la scelta principale è stata sulle persone che volevo al mio fianco in questa avventura.
Come li hai conosciuti?
Vito lo conosco da più tempo perché abbiamo suonato per sei anni insieme nei Figli di Pulcinella, sestetto di Milano con Francesco Piras, Gianluca Elia, Alessandro Centolanza e Andrea Jimmy Catagnoli che è stato, oltre che un gruppo, una vera e propria famiglia.
Marco invece l’ho incontrato mentre registrava con Alessandro Centolanza nel suo album di canzoni e in più era il pianista che con Andrea Quattrini e Roberto Gelli forma il Samoa Wedding Trio.
Quindi entrambi incontri nati come fortuiti e poi consolidatisi nel tempo: si sente la differenza di età, a tuo parere?
In termini relazionali assolutamente no; l’unica differenza che sento è in materia di esperienza musicale (e ci mancherebbe); ma quando li ho chiamati non ho neanche realizzato subito che ci distanziavano così tanti anni, ho trovato molto naturale chiedere a due musicisti con cui mi piace così tanto suonare insieme di partecipare alla creazione di questo progetto, avevo bisogno proprio di loro, della loro attitudine e del loro sound.
Volevo addentrarmi nell’aspetto compositivo dell’album: come hai gestito l’arrangiamento? È stato un processo democratico o hai portato le parti già scritte e si è suonato?
Inizialmente ho portato le parti e si è suonato, parliamo della prima sessione di più o meno un anno fa. Ho registrato le prove e ci ho lavorato di volta in volta per migliorare le parti qua e là. Sono molto rigido con me stesso e quando ho un’idea cerco di realizzarla completamente, quindi nella prima fase Vito e Marco cercavano di interpretare le mie volontà e di realizzare al meglio le parti che gli sottoponevo.
Mi sono accorto che tutto passava per il loro filtro e mi veniva restituito arricchito della loro interpretazione, e ho pensato che fosse tanto meglio così, tutto ciò che era in più era tanto di più di guadagnato. Ho avuto le idee chiare sin dall’inizio sulle forme dei brani, l’apporto di Marco e Vito è stato appunto il come interpretare queste forme nella maniera migliore. Se dovessi definire l’album non lo definirei jazz o jazz moderno, ma direi che è un album di canzoni. La domanda fondamentale è stata più sulla forma, su come uscire dalla forma tema-solo che molte composizioni jazz usano.
Infatti il punto di merito di questo album di canzoni, per me, è la continuità che avete dato nel discorso musicale: spesso non ci si accorge neanche di essere passati alla traccia successiva se le si ascolta in fila. Ma di cosa parlano queste canzoni?
Credo che, pur non volendolo alle volte, ogni brano è un pezzo di me e racconta un’episodio o una persona che mi ha dato qualcosa. Tutti i pezzi sono stati scritti di getto. La gestazione di un brano è di un paio di giorni dal punto di vista compositivo e, anche se non lo vedo necessariamente come merito, anzi lo ritengo un po’ naïf, è il mio modo di comporre: il primo giorno scrivo il tema e una progressione di accordi e penso alla struttura, il secondo giorno torno sulla scrittura, sostituisco qualche accordo e rifinisco il brano.
Come dicevamo prima, il grosso poi è la ricerca della forma e l’arrangiamento con le persone giuste. C’è un brano diviso in tre parti che si chiama “Those Who Goes”, me lo racconti?
È un brano che ho scritto una settimana prima di entrare in studio, non c’entrava molto con l’album perché è quasi hard bop come impianto e mi sono stupito di come siamo riusciti a inserirlo e arrangiarlo, anche con l’espediente delle radio dentro e fuori, usato se vuoi anche perché sono cresciuto ascoltando tanto la radio e la volevo nell’album.
È dedicato a varie persone che mentre lo stavo scrivendo se ne stavano andando o se ne erano andate. Come tutti i brani il nucleo è qualcosa che mi è successo e che non voglio nascondere in alcun modo. L’ho portato in studio e i ragazzi non l’avevano mai visto prima, l’abbiamo suonato per riscaldarci e abbiamo registrato una sola take, che poi abbiamo tenuto.
Svelami altre “dediche” dietro i brani, se puoi.
“The Pulitzer Prize Winner” è dedicato a mio fratello a cui devo molto e grazie al quale sono un musicista, “Giano” è per Gianluca Elia musicista dei Figli di Pulcinella di cui abbiamo parlato prima che ora vive a Copenhaghen.
Altri pezzi, come “Blu”, “Luci” e “Marta” sono dedicati a persone che sono o sono state molto importanti nella mia vita.
Hanno tutti un legame stretto con la realtà ma non parlano esattamente di quell’avvenimento o di quella persona, piuttosto mentre scrivevo quella specifica canzone mi è capitata quella cosa. Anche perché la scrittura stessa è stata influenzata da quell’avvenimento, e viceversa, e l’ho voluto narrare senza mascherarlo.
Se dovessi descrivere di cosa parla questo album, diresti che parla di te? E in quel caso come è possibile che sia allo stesso tempo così universale nel linguaggio?
Il mio percorso è sicuramente personale: qui citerei il titolo dell’album, “Radici”, che forse risponde alla domanda. Da quando ho cominciato a mettere insieme le canzoni mi sono anche interrogato profondamente sulle parti di cui sono composto, chi mi compone e da qui la ricerca sulle radici, appunto. Credo che arrivi in modo così spontaneo perché è un lavoro sentito e quando crei qualcosa in questo modo è molto più facile che risuoni negli altri.
Forse è per questo che, nonostante l’album sia espressione di me stesso, molti possono sentire punti di contatto all’ascolto delle canzoni. La stessa essenzialità dei brani è uno strumento per lasciare molto spazio: io dico le cose che penso, in modo sincero, e lascio comunque silenzi e attese in modo che anche chi non è ricettivo all’ascolto in quel momento possa tornarci sopra, pensarci, o dire la sua.
Per chiudere, prossimi appuntamenti? Avete intenzione di scrivere un nuovo album insieme?
Il 19 ottobre a Salotto in Prova a Milano. Sto scrivendo tanta musica per il trio e c’è la volontà di scriverne un altro, ma siamo in stand-by per gli impegni che non ci lasciano troppo spazio di manovra.
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Amara e splendida analisi che dovrebbe arrivare alle alte sfere!
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