Mi chiedo cosa abbia spinto i sindacati a proclamare lo sciopero dei lavoratori del pubblico impiego il prossimo 9 dicembre. A parte la data in sé, che essendo a ridosso del ponte dell’Immacolata si presta a facili malevole interpretazioni, è il senso politico dell’iniziativa a risultare incomprensibile. Certamente si tratta del tentativo di condizionare le scelte del governo sulla manovra economica: usare lo sciopero come strumento di pressione è il cardine per ogni ipotesi di sblocco di una trattativa sindacale. Ma ci sono modi e tempi. In questo caso, modi e tempi sono sbagliati.
Partiamo dai tempi. Più di altri paesi, anche a causa di ragioni endemiche, l’Italia sta attraversando la crisi economica più grave dalla seconda guerra mondiale. Ci troviamo in pieno lockdown, anche se le zone colorate vogliono illuderci che non sia così. Molte attività hanno chiuso o sono rimaste strangolate dal crollo dei consumi. La microimpresa, tipica espressione del sistema economico italiano, è volata via in molti settori: ristorazione, turismo, spettacoli, cultura.
La distanza sociale si misura nella divisione tra i garantiti e i non garantiti, molti dei quali sono già stati espulsi dal sistema produttivo. Il pubblico impiego è il più garantito di tutti: nessuno può essere licenziato. Questa distanza porta inevitabilmente a esasperare le ragioni della divisione piuttosto che quelle dell’unità tanto invocate tra l’altro dal presidente Mattarella.
Ne consegue che la rivendicazione di miglioramenti salariali per i quali addirittura si arriva allo sciopero, in questa Italia dove i disoccupati e i non garantiti sono sempre di più e nella quale per molti è sempre più difficile mettere insieme il pranzo con la cena, appaia come una forzatura egoistica.
Non a caso da giorni i social media ribollono di proteste contro i sindacati e contro la categoria generica degli “statali”, che poi solo statali non sono, con le accuse di elitarismo e di insensibilità verso le urgenze dei non garantiti e dei nuovi poveri.
E parliamo dei modi. Comprendo che un sindacato sia tenuto alla tutela degli interessi delle categorie che lo formano e che il pubblico impiego lamenti l’attesa troppo lunga per il rinnovo del contratto. Tuttavia credo che esistano momenti storici nei quali il sindacato, per ciò che rappresenta al di sopra della propria funzione di tutela di interessi specifici, sia chiamato a un ruolo più alto, nell’interesse generale e non solo particolare.
Il volto più duro della crisi non è ancora arrivato. Vedremo le conseguenze della pandemia abbattersi sul tessuto sociale del Paese, oggi tenuto artificialmente in vita con mance e mancette, e a lacerarne la struttura sociale con esiti sinora imprevedibili. La politica gode di scarsa fiducia, la popolazione se ne accorge e sembra pronta per cercare nuove strade.
Se avesse una visione più larga, il sindacato potrebbe porsi come elemento di stabilità per la tenuta del Paese e svolgere un ruolo di portata storica nella ricostruzione italiana. Ma questa visione manca, evidentemente, e i risultati si vedono: mettere tutti d’accordo nella condanna di uno sciopero non è impresa facile. C’è da augurarsi un cambio di strategia.
Quando nell’anno nuovo apparirà chiaro che il recovery fund sarà molto recovery e poco o nulla fund al pubblico impiego andrà grassa che vengano onorati i vecchi contratti.
Volente o nolente la spesa corrente dovrà essere tagliata pesantemente.