Dal riformismo alla svolta di Bologna

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Il primo congresso socialista dopo le leggi repressive crispine si svolse a Roma dall’8 all’11 settembre 1900. Il compito assegnato al congresso era la definizione della posizione del partito verso le altre forze democratiche e lo Stato borghese.

La riconquistata libertà d’azione politica, associativa e sindacale, creò un’atmosfera di diffuso ottimismo, che fece ben sperare circa l’esito dei lavori. Grazie a quel clima politico disteso e rafforzato da alcune recenti vittorie elettorali amministrative e politiche, fu superato di slancio la contrapposizione tra riformisti e rivoluzionari.

Il congresso rappresentò senza alcun dubbio l’affermazione del riformismo e del suo programma d’azione. In particolare fu condiviso il programma presentato da Turati e da Treves, noto come Programma minimo, che mirava a realizzare alcune riforme ritenute fondamentali per attuare il socialismo, grazie all’evoluzione graduale delle strutture economiche e politiche. Tale programma venne approvato quasi all’unanimità, uno solo delegato votò contro.

Per richiamare le riforme più rilevanti comprese nel documento e comprendere come quel programma non fosse in realtà tanto minimo, ma molto ambizioso, ricordiamo:

Il suffragio universale;
la proporzionale;
l’abolizione del Senato Regio;
il riconoscimento e la libertà per le organizzazioni sindacali;
la rinuncia della politica coloniale;
il decentramento politico e amministrativo;
la municipalizzazione dei servizi pubblici;
le 36 ore di lavoro settimanali;
la tutela del lavoro delle donne e dei fanciulli;
la riforma tributaria;
il miglioramento del sistema assistenziale e previdenziale;
l’istruzione elementare obbligatoria e laica;
l’autonomia delle università.

Si trattava in sostanza di numerose e fondamentali questioni che furono per parecchio tempo gli obiettivi della lotta politica e sociale del Psi e della sua azione parlamentare.
Critica Sociale del 1° ottobre riconobbe che al congresso era prevalso un “sano spirito positivista, potremmo dire sperimentalista, ed è in ciò il segno di una grande sincerità e maturità raggiunta dal nostro partito”.

La Giustizia di Prampolini, La nuova terra di Zinardi, La Lotta di Badaloni, L’Idea di Berenini, Il tempo di Milano diretto da Claudio Treves, e altri importanti periodici socialisti non fecero mancare il loro plauso e la loro adesione.

L’approvazione del programma minimo costituì, quindi, il presupposto essenziale per allacciare un rapporto meno ostile con il governo che si fosse presentato con un programma di riforme democratiche.
Se tale posizione era molto diversa da quella sostenuta anche dai riformisti al congresso di Reggio Emilia del 1893, quando passò la linea intransigente, era vero anche che con la caduta di Crispi il clima era completamente cambiato. Si era aperta una fase politica del tutto nuova che guardava allo sviluppo dell’Italia e alla salvaguardia dei diritti e delle libertà democratiche.
Tutto ciò attirò sui riformisti le accuse di cedimento e di opportunismo da parte degli intransigenti e aprì una discussione che sarebbe durata per anni, segnando una alternanza alla guida del partito tra le due frazioni in competizione.

Poiché il nuovo governo Zanardelli- Giolitti non poteva contare su una maggioranza certa, si decise di concedere fiducia, non collaborazione, a un governo che sembrava di favorire e incoraggiare l’evoluzione democratica del paese.

La ferma opposizione di Enrico Ferri non si fece tuttavia attendere, dando fiato alla frazione intransigente a cui aderirono anche Gaetano Salvemini e Arturo Labriola.
La risposta di Turati alle contestazioni di Ferri e Labriola fu affidata a un saggio, scritto in collaborazione con la sua compagna Anna Kuliscioff, pubblicato il 16 giugno 1901 su Critica Sociale, dal titolo “Il partito socialista e l’attuale momento politico”.

Il partito, secondo Turati, doveva muoversi con realismo e moderazione per stimolare i liberali progressisti e tutte le forze democratiche a continuare nella strada intrapresa, incoraggiando così la svolta liberale in atto.

Turati si disse convinto di dover favorire l’opera di rinnovamento della nuova borghesia industriale presente soprattutto al Nord, in modo da sconfiggere le forze reazionarie, a cominciare da quelle agrarie e latifondiste del Sud.

Turati in sostanza intendeva collocare il partito all’avanguardia del processo di modernizzazione della società e renderlo pronto e maturo per la svolta decisiva in senso socialista non appena si fossero presentate le condizioni.

Nel caso di Salvemini la questione si pose in altri termini. Egli era convinto della necessità di rompere il blocco dominante nel Sud e agganciare al partito le masse contadine meridionali in un quadro di alleanze con gli operai del Nord. Considerando sotto questo aspetto insufficiente e inadeguata la politica del PSI, finì per lasciare il partito.
Lo scontro politico nel partito si dimostrò dunque molto vivace e occupò tutto il periodo che intercorse tra il congresso di Roma e quello successivo di Imola, nel 1902.
L’ennesimo compromesso intervenuto a Imola tra riformisti e intransigenti se da un lato permise al partito di continuare unito a lottare per il raggiungimento dei suoi obiettivi di riforme sociali, dall’altro lasciò irrisolto il problema della linea politica, tanto da convincere Turati a non entrare nel secondo governo Giolitti del 1903.

Il 1904 con il congresso di Bologna sarà l’anno della svolta e i riformisti saranno messi in minoranza dagli intransigenti e dai sindacalisti di Ferri e Labriola.




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