Prima Domenica di Avvento, Anno C – 2 dicembre 2018
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 21,25-28.34-36).
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte.
Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria.
Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina. State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso; come un laccio infatti esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra. Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo».
Con questa domenica comincia l’Avvento, parola latina che significa “Venuta”, periodo che prepara il Natale, la memoria della nascita di Gesù. Non si tratta però semplicemente del ricordo biografico di una storia antica di duemila anni: la Venuta che si attende è insieme quella del Figlio dell’Uomo nel tempo e quella alla fine del tempo. Come accade per Israele, la celebrazione liturgica, il “memoriale”, non è un semplice ricordo, ma è il permettere alla generazione che celebra quell’evento di diventargli contemporanea. In altre parole, per gli ebrei, significa uscire ancora una volta dall’Egitto e mettersi in marcia verso la libertà; per noi, significa ricominciare, e ricominciare dall’attesa.
Il paradosso, però, è proprio questo, che l’attesa è duplice: come dicevamo, è l’attesa di una venuta nel tempo, nella nostra storia contemporanea, nell’ordinario tessuto della vita quotidiana, ma anche di una venuta che pone fine alla storia e la fa entrare nell’eternità. Questo ha due conseguenze capitali.
La prima, è che la storia non finisce perché l’uomo la fa finire. E’ vero: i primi versetti del vangelo di oggi sono straordinariamente pertinenti, sembrano parlare di ciò che stiamo vivendo: davvero, “le potenze sono sconvolte”, quell’equilibrio di poteri che assicurava un certo ordine mondiale sembra in pericolo di dissolversi e gli uomini provano spesso “la paura per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra”. Tuttavia, qualunque cosa accada, la fine arriverà solo con la venuta del Figlio dell’Uomo: Dio non si lascia espropriare della sua signoria. Mi sembra che manchi un’interpretazione seria di quello che sta accadendo: si pensa che il problema sia economico e politico, ma non viene in mente che possa essere anche spirituale, che cioè porti con sé la richiesta di rientrare in se stessi e di chiedersi: questa crisi, che cosa dice a me, al modo in cui imposto la mia vita, agli obiettivi che mi pongo, alle scelte che faccio. Le letture dell’Avvento di quest’anno suggeriscono tutte di orientare diversamente il nostro sguardo. Per esempio, questa domenica ci vien detto: “Alzate il capo!, State attenti che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita”. Il cuore rischia di appesantirsi (bellissima espressione!); questo può avvenire in due modi: o perché cerchiamo qualche droga per dimenticare l’angoscia di una situazione che riteniamo irrimediabile, o perché cerchiamo nell’azione, nel gioco spietato della competizione, di salvare il nostro pezzo di felicità. Persino chi è animato da un desiderio nobile di affrontare le difficoltà nuove e straordinarie del nostro tempo rischia di lasciarsi trascinare nell’idolatria dell’azione.
La seconda conseguenza è un certo “strabismo” della vita cristiana, che ne rappresenta però il fascino. Noi viviamo nell’oggi continuamente mutevole della storia, ma anche anticipiamo l’oggi dell’eterna, immutabile presenza della comunione con Dio. Un testo cristiano del secondo secolo, la Lettera a Diogneto, lo dice con una bellissima espressione: “Per il cristiano ogni terra straniera è la sua patria, e ogni patria è per lui terra straniera”. In altre parole, la storia è per noi importante, noi amiamo questa vita, pensiamo che essa abbia sempre un significato, che sia il luogo nel quale noi viviamo la fedeltà al Signore nostro e della storia stessa, che quindi il nostro agire abbia un senso, se vissuto nell’obbedienza a Lui. Tuttavia, non siamo solo cittadini, siamo anche stranieri: per questo, nutriamo il desiderio dell’unica patria che abbiamo, quella celeste. Attenzione, però: non fuggiamo in elucubrazioni e in fantasie sul Paradiso: per noi, la vita eterna è l’incontro con il nostro Salvatore. A questo, paradossalmente, servono anche le sofferenze. Agostino d’Ippona disse che Dio le permette ut ad se nos vehementius attrahat, per attirarci a sé con uno slancio “veemente”, con tutta la forza del desiderio. Anche un martire moderno, Shabhaz Bhatti, ministro pachistano per le minoranze religiose, ucciso da estremisti nel 2011, dice nel suo testamento come si possano collegare la storia e l’eternità. Lo fa, richiamando la scena del giudizio finale nel Vangelo di Matteo al capitolo 25: “I passi che più amo della Bibbia recitano: Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. Così, quando vedo gente povera e bisognosa, penso che sotto le loro sembianze sia Gesù a venirmi incontro. … Penso che queste persone siano parte del mio corpo in Cristo, che siano la parte perseguitata e bisognosa del corpo di Cristo. Se noi portiamo a termine questa missione, allora ci saremo guadagnati un posto ai piedi di Gesù e io potrò guardarLo senza provare vergogna”.
La carità è dunque il luogo nel quale presente e avvenire, storia e eternità si incontrano. La “vita eterna” non si dimostra come un teorema di geometria, ma si vive nell’oggi attraverso la carità. La carità anticipa l’eternità, perché la carità è Dio. Benedetto l’uomo che sa riconoscere il proprio limite e ne fa motivo per cercare nell’altro uomo l’amico che porta il dono di una presenza che ci libera dalla solitudine. E’ per questo che abbiamo bisogno di andare verso i poveri, di amarli, di farne degli amici. A questo saremo indotti più facilmente se, rientrando in noi stessi, accettiamo di ascoltare la voce di quel Tu che è presente in ogni uomo e che ci dice: “Ecco, io sto alla porta e busso” (Apocalisse 3,20).
Ultimi commenti
Anche l' Ordine degli Avvocati di Reggio Emilia .
Amara e splendida analisi che dovrebbe arrivare alle alte sfere!
Diranno, sia a sinistra che a destra, che c'è un disinteresse della politica, in particolare dei giovani, diranno che molti non votano perché pensano che, […]