Giovedì 7 gennaio, ricorrenza della Giornata nazionale della bandiera e 224° anniversario del Primo Tricolore, la città di Reggio ha celebrato la Festa del Tricolore, istituita per ricordare la nascita del vessillo nazionale avvenuta proprio nel capoluogo di provincia emiliano nel 1797, quando fu approvata per la prima volta l’adozione della bandiera verde, bianca e rossa da parte di uno Stato italiano sovrano, la Repubblica Cispadana.
Alla cerimonia, seppur in collegamento da Milano per rispettare le misure anti-Covid, è intervenuto con una lectio magistralis anche lo scrittore Antonio Scurati. Ecco la trascrizione del suo intervento.
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Buongiorno. Questo è un buon giorno perché oggi il Tricolore, la bandiera italiana, compie 224 anni ed è ovvio ed è giusto che lo si festeggi a Reggio Emilia, anche se alcuni di noi per necessità sono lontani, perché 224 anni fa proprio a Reggio Emilia per la prima volta la Bandiera Tricolore verde bianca e rossa fu adottata da patrioti italiani come simbolo di lotta e di anelito per la libertà, per l’autodeterminazione dei popoli e per i diritti civili nel contesto della Repubblica Cispadana, che sorgeva su ispirazione della rivoluzione francese e di quel grande messaggio libertario ed egalitario che la Rivoluzione francese diffuse in tutta Europa.
Da più di due secoli la Bandiera Tricolore accompagna e scandisce tutti i momenti fondamentali della storia della nostra nazione: io ho scelto oggi di rievocarne due eventi, uno glorioso e radioso e uno invece oscuro e tenebroso.
Mi perdonerete se nel rievocare il momento glorioso e radioso voglio raccontarvi un momento di storia patria che accade non a Reggio Emilia ma a Milano.
Milano è la città da cui vi parlo, ma ci sono due ragioni forse più significative per le quali ho scelto di rievocare questo episodio. La prima è che, raccontandovi un momento delle celebri Cinque giornate di Milano, cioè dell’insurrezione della popolazione di Milano contro l’occupante austriaco, racconterò un momento in cui il Tricolore si consolida proprio nel cuore e nell’animo e nell’uso degli italiani come simbolo e vessillo di quell’Italia cui loro aspiravano e per la quale lottavano, una nazione libera, democratica, franca che ancora non esisteva.
Il secondo motivo è che, come tutti voi sapete, Milano è il capoluogo della Lombardia, la regione martire della pandemia che ancora ci attanaglia e che ci ha non poche volte, credo, indotto in qualche momento di disperazione, che è un sentimento umano che bisogna riconoscere, con cui bisogna fare i conti, e che è il sentimento gemello e antitetico della speranza. La speranza, che fu la parola chiave di quello straordinario episodio insurrezionale del Risorgimento italiano che appunto va sotto il nome delle Cinque giornate di Milano, quando la popolazione della città venne investita da quel vento di speranza, da quel potente soffio di speranza che investì tutta l’Europa in quell’anno e che gli storici chiamano la Primavera dei popoli.
Ebbene cosa accade a Milano nel marzo 1848? Accadde che la storia fece un salto, sì perché quando il 18 marzo 1848 i cittadini di Milano insorsero contro l’occupante austriaco, le possibilità di successo dell’insurrezione erano talmente remote da rendere la vittoria degli insorti una sorta di accadimento quasi estraneo al corso degli eventi. Eppure da lì a cinque giorni quella vittoria accadde, e accadendo aprì una specie di squarcio nel tessuto che lega i fatti nelle loro successioni prevedibili di antecedenti e conseguenti concatenazioni logiche di cause ed effetti. Avvenne l’inaudito e l’impensato, ma ciò che era stato ardentemente voluto e desiderato, appassionatamente sognato da migliaia e migliaia di uomini e donne.
Sì perché in quel marzo del 1848 Milano si trovava da più di 30 anni sotto il giogo ferreo della dominazione austriaca. L’armata imperiale occupava la città con una guarnigione di circa 20.000 soldati perfettamente armati ed addestrati, appartenenti a quell’esercito degli Asburgo che allora era ritenuto il più potente esercito del tempo. Un esercito che per di più stava asserragliato nel Castello sforzesco, una fortezza imprendibile insediata proprio nel cuore della città, da dove teneva la città sotto tiro, perché era sottoposta alla costante minaccia dei cannoni spianati. Una formidabile macchina da guerra che era agli ordini di un temutissimo e leggendario comandante, il maresciallo Radetzky: un uomo anziano – pensate, aveva già 80 anni all’epoca – una sorta di anziano patriarca intagliato nel mogano, che nei suoi vigorosi 80 anni d’età ricapitolava la sapienza marziale di un’intera epoca. Ebbene, cosa poteva opporre Milano a questa forza preponderante?
Milano, pensate, poteva opporre una popolazione civile ormai disusa, disabituata alle armi, disabituata a combattere da quasi due generazioni; un’organizzazione insurrezionale a dir poco fantasmatica, e un armamento che, pensate – lo hanno ricostruito gli storici – alla vigilia della rivolta non arrivava a 300 fucili efficienti. Ebbene, nonostante tutto questo e a dispetto di tutto questo, il 18 marzo del 1848, sventolando Tricolori che durante la notte le donne avevano cucito con brandelli e cascami di stoffa verdi, bianchi e rossi, la cittadinanza di Milano insorse, e insorse spontaneamente, quasi spontaneamente perché l’organizzazione cospirativa c’era ma era poca cosa, e in cinque giorni con la sola forza di popolo – con la forza di una magnanima disperazione, lasciatemelo dire – eresse le barricate e cacciò la guarnigione del più potente e disciplinato esercito del mondo di allora, capace di occupare saldamente alla città per più di trent’anni, al riparo di una fortezza che abbiamo detto essere imprendibile.
In quei cinque giorni una banda di liceali, di vecchi reduci delle campagne napoleoniche che tirarono fuori le loro sciabole arrugginite, di aristocratici e di operai insieme, di socialisti atei e di devoti seminaristi – perché anche il seminario prese parte delle lotte ed eresse una barricata – di donne e di uomini, di persone, di distinti borghesi e di prostitute – perché anche loro combatterono – ebbene questa banda caricò e travolse le regioni dell’impero.
L’aquila bicipite degli Asburgo fu abbattuta quasi a sassate, precipitò nelle vie del centro, il centro di una città che era stata disselciata e trasformata in proiettile dal suo stesso popolo.
Prima che in un proiettile, però, quella città – e questo, secondo me, è un punto fondamentale anche come monito per l’oggi – era stata trasformata in un campo trincerato, in un’ultima ridotta a difesa della libertà dei popoli. La verità è che, nel giro di poche ore, quella città per mano dei suoi stessi abitanti, i milanesi, fu demolita e ricostruita, disgregata nella fibra più intima delle sue private abitazioni e riaggregata nelle pubbliche vie, nelle più precarie e memorabili opere di edilizia civile – dirà Victor Hugo – che la storia del mondo contemporaneo conosca: le barricate.
Non soltanto la cittadinanza di Milano, fate attenzione, insorse in quel 18 marzo del 1848, ma la città stessa di Milano, la sua forma urbis, insorse a difesa di se stessa, innalzandosi da un suolo dissestato in cima alle barricate. La città salì sulle barricate e nelle barricate, sì perché già nel secondo giorno di lotta, il 19 marzo, Milano era disseminata di più di mille barricate, che di quartiere in quartiere riflettevano in una sorta di specchio infranto l’intero spettro delle condizioni di vita dei suoi abitanti.
Ci si barricava dietro tutto, dietro la ricchezza ma anche dietro la miseria, dietro agli utensili del lavoro e dietro le comodità del riposo, nelle cose sacre e in quelle profane.
Una città all’improvviso senza interni in quei giorni, Milano, tutta letteralmente riversa nelle strade: è difficile immaginarlo oggi quando in città come Milano, una capitale dell’interior design, molta parte della bellezza invece è coltivata negli interni, nel privato delle abitazioni, spesso con distrazione e a dispetto degli spazi pubblici a cui non si dedica altrettanta cura e tanta attenzione.
Ebbene, invece in quei giorni dalle finestre piovvero in strada cataste di carrozze, e dalle chiese e dai portali degli antichi palazzi omnibus, carri, confessionali banchi di chiesa per l’appunto, botti piene e botti vuote, balle di cotone o di seta, sedie spagliate e poltrone damascate, batterie di polli – è stato testimoniato – pulcini pigolanti e uova mute di onici e alabastro preziosissime, gettate sulle barricate dagli aristocratici, roba vecchia e roba nuova, cose animate e inanimate, urne sacre e ostensori profani. E poi materassi, letti, tavole, reliquari, stoviglie, stuoie, tappeti e cenci, legni, stoffe, metalli, piume, pelli, minerali e carni: sì carni, carni viventi, carni umane, carni pulsanti di ardore patriottico.
Perché in cima a tutto questo – è necessario non dimenticarlo – sorgevano i cittadini di Milano: donne, uomini, ragazzini, preti, prostitute, aristocratici, popolani, ciascuno di essi trasformato in un combattente. Fu senz’altro una pagina gloriosa: da allora il Tricolore non cessò più di essere il vessillo della nostra nazione e di quella aspirazione verso la libertà e l’autodeterminazione dei popoli, il rispetto delle persone che da qui nacque.
Come vi dicevo, vi furono anche i momenti – e non dobbiamo nasconderlo – in cui quel Tricolore fu trascinato nel fango, in cui quel Tricolore appunto da simbolo di libertà poté anche diventare simbolo di oppressione, e uno di questi momenti fu senz’altro il periodo fascista. Non è forse senza significato ricordare che Benito Mussolini, il fondatore prima dei movimenti dei fasci di combattimento e poi del partito nazionale fascista, in gioventù – quando era un ardente e infiammato leader dell’ala più radicale del movimento socialista rivoluzionario – disprezzò profondamente il Tricolore, perché per lui appariva come un simbolo di tutto ciò contro cui combatteva. Pensate che nel 1911 Mussolini, in occasione dei tumulti di piazza scatenati appunto dal socialismo e dal movimento anarchico contro la guerra di colonizzazione della Libia voluta da Giovanni Giolitti, ebbe a definire – cito testualmente parole sue – “il Tricolore come uno straccio da piantare su un mucchio di letame”.
Questo ovviamente non gli impedì soltanto pochi anni dopo, non impedì al suo abituale e inveterato opportunismo, di invece sposare – diciamo così, retoricamente – il Tricolore e farne uno dei suoi vessilli in quella forma di acceso nazionalismo che coltivò a partire dalla prima guerra mondiale; e non gli impedì di sventolare quando, alla testa dei suoi squadristi, marciò su Roma nel 1922 – in realtà ci arrivò viaggiando comodamente in un vagone letto da Milano, ma questo richiederebbe un altro approfondimento – non gli impedì appunto di far sventolare il Tricolore accanto alle bandiere nere, cariche di simboli di morte e di violenza, del fascismo.
Ed è proprio questo il punto su cui io vorrei attirare la vostra attenzione: il Tricolore d’Italia fu, con lo stemma dei Savoia al centro, la bandiera del nostro Paese e della nostra nazione anche durante il ventennio fascista, quando – come tutti voi sapete ma non è mai superfluo ricordare – ogni libertà, ogni diritto civile fu soppresso e conculcato, mentre invece quella bandiera rappresentava, per la sua storia, la lotta per la libertà e per i diritti civili e delle persone.
Continuò a sventolare anche durante il fascismo, ma non da solo: il Tricolore sventolò ma sempre messo in ombra dalla bandiera nera, anche nelle grandi manifestazioni, nelle grandi parate di regime fascista, il Tricolore c’era ma era sempre in qualche misura oscurato dalle enormi, altisonanti scenografie del regime e dallo sventolio delle bandiere nere, cariche del fascio littorio e di simboli di morte come il teschio con le tibie incrociate.
Questo ci dice molto, ci deve ammonire sul presente e sul futuro, perché questo passaggio dalle sue origini a Reggio Emilia a ciò che il Tricolore divenne nell’era fascista, all’ombra delle bandiere nere, ci sottolinea ciò che è la differenza essenziale per il presente, per il passato, per il futuro, tra una politica della speranza e una politica della paura.
In fondo, Mussolini e il fascismo, se si volessero dal mio punto di vista ridurre ad una sola e semplificatoria formula, si potrebbero definire così: Benito Mussolini veniva dal movimento socialista, ne era stato uno dei leader dell’ala più radicale, anche più amato dai giovani rivoluzionari, e come voi sapete il movimento socialista, il partito socialista – stiamo parlando dell’inizio del Novecento – era il partito della speranza.
Il suo stesso simbolo era un sole radioso che sorgeva, il sole dell’avvenire: per milioni di donne e uomini, all’epoca, il socialismo italiano – che aveva le sue radici nella sua storia specifica, nell’Ottocento – aveva significato una cosa semplice ed essenziale, cioè la speranza che la vita di mio figlio potesse essere migliore della mia; la speranza che il domani sarebbe stato migliore dell’oggi, la speranza che generazioni di umili, di contadini e di operai, di schiene spezzate riponevano in un domani, ed erano pronte a lottare per quel domani nel quale i loro figli e le loro figlie non dovessero vivere una vita di stenti e di ingiustizie come loro l’avevano vissuta.
Ebbene Mussolini, una volta espulso dal partito socialista con ignominia nel 1914, perché all’improvviso cambiò idea riguardo alla partecipazione dell’Italia in guerra, una volta che i suoi compagni di strada divennero i suoi nemici, nel crepuscolo della prima guerra mondiale capì una cosa, ebbe un’intuizione politica formidabile e sciagurata, e cioè che esisteva una passione politica ancora più potente della speranza, e quella passione politica era per l’appunto la paura.
A quel punto, lui scacciato – diciamo così – dalla terra della speranza, alla ricerca come uno zingaro, come uno sbandato, di una strada che lo conducesse al potere, decise di scommettere l’intera posta sulla paura, su una politica della paura. Allora cominciò a soffiare su tutte quelle passioni tristi, risentimento, rancore, senso di tradimento, rabbia, senso di declassamento, che provavano e nutrivano milioni di reduci che tornavano dal fronte dopo aver combattuto nelle trincee della prima guerra mondiale, scontenti e disadattati, incapaci di reinserirsi nella vita civile, perché le aspettative che erano state coltivate in loro, da chi li aveva mandati al fronte, erano state deluse.
Allora Mussolini decise di alimentare, di soffiare come un mantice sul fuoco di questa rabbia, di questo risentimento, di questa sfiducia nei confronti della vecchia classe dirigente, di questo disprezzo nei confronti delle istituzioni parlamentari della giovane democrazia italiana, che lui alimentò senza sosta con una efficace e terribile dote. Poi ovviamente era pronto a raccogliere i frutti di questa paura, di questo rancore, di questa delusione, di questa disperazione che lui stesso alimentava.
Ebbene io credo che questi due episodi della storia del Tricolore, il suo momento di luce e il suo momento di tenebra, possano e debbano guidarci in questo nostro presente, perché anche di recente – è inutile nasconderselo – alcuni leader e movimenti politici, non diversamente anche se in un contesto completamente mutato da quanto fece Benito Mussolini negli anni Venti, hanno polemizzato, hanno rifiutato prima e hanno disprezzato, qualche volta hanno vilipeso il Tricolore e poi, nel momento in cui invece l’opportunismo politico glielo suggeriva, non diversamente da come fece Mussolini in un secondo momento, hanno invece riabbracciato quel Tricolore, si sono appellati di nuovo alla nazione che quel Tricolore rappresentava ma sempre con quei toni di un acceso, aggressivo e direi quasi rancoroso nazionalismo che furono gli stessi che adottò Mussolini nella sua seconda fase.
Ecco io credo che qui ci sia un insegnamento: il magnifico Tricolore d’Italia, verde bianco e rosso, che noi dobbiamo continuare ad amare e a sventolare, non è il simbolo del nazionalismo, è il simbolo di una nazione.
C’è una sottile ma profonda differenza, quasi un’antitesi, tra nazione e nazionalismo: la nazione, per come è rappresentata dal Tricolore dalla sua origine a Reggio Emilia e dalla sua lunga storia nei suoi momenti migliori, è un’entità che nasce e genera speranza, il nazionalismo è invece un’ideologia che nasce da e che produce paura.
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Amara e splendida analisi che dovrebbe arrivare alle alte sfere!
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