L’omicidio di Saman è stato organizzato da tutti i familiari, e poi anche comunicato anche ai parenti che vivevano all’estero, sin dai primi giorni del rientro a casa di Saman Abbas. La vicenda, poi, è stata velocizzata, dopo la scoperta della sua relazione con Saqib e l’intenzione della ragazzina 18enne sua intenzione di fuggire.
Lo sostengono il procuratore di Reggio Emilia Gaetano Paci e la pm Maria Rita Pantani nell’atto alla Corte di appello di Bologna dove impugnano le assoluzioni dei due cugini della 18enne, Nomanhulaq Nomanhulaq e Ikram Ijaz e ribadiscono la sussistenza, a loro avviso, delle aggravanti di premeditazione e futili motivi. In primo grado la Corte di assise ha condannato all’ergatolo i genitori Shabbar Abbas e Nazia Shaheen e a 14 anni lo zio Danish Hasnain, l’unico a rispondere anche di soppressione di cadavere, reato che invece per la Procura riguarda tutti i familiari a processo.
Nell’impugnazione la Procura reggiana non si arrende e chiede di riascoltare alcuni testimoni e offre ai giudici di appello una serie di fotogrammi in sequenza per rivisitare i movimenti intorno alla casa di Novellara dove viveva la famiglia pachistana, tra il 29 e il 31 aprile 2021, quando Saman è stata uccisa. Per esempio, oltre al video del 29 aprile dove si vedono i due cugini e lo zio con attrezzi in mano, se ne aggiunge uno successivo dove Nomanhulaq impugna un piccone, strumento per scavare il terreno compatto, il che rafforzerebbe per l’accusa l’idea che la buca sia stata scavata dai tre. La Corte sostiene invece che fossero andati a fare un’attività agricola.
Un altro passaggio importante è dedicato al fratello della vittima, all’epoca minorenne, testimone chiave della Procura ma demolito nella sentenza dell’assise come inattendibile. I pm insistono ribattendo che la sua posizione doveva essere quella di “testimone vulnerabile” e non certo quella di una persona potenzialmente indagabile.
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