Il 20 e 21 settembre prossimi gli italiani saranno chiamati alle urne per esprimere la propria opinione circa la riduzione del numero dei parlamentari: da 630 a 400 (Camera) e da 315 a 200 (Senato). La vittoria del Sì appare scontata nei sondaggi: la distanza misurata in chiave statistica parla di un vantaggio incolmabile, prossimo al 40% di scarto.
A favore del taglio dei parlamentari si sono espresse le due maggiori forze populiste, i 5Stelle e la Lega. Nel Pd si registrano voci isolate, anche autorevoli, a favore del No. Ma sono posizioni rare, perfino coraggiose, poiché è evidente che a nessuno piaccia l’idea di intestarsi una sconfitta certa.
Le argomentazioni del Sì hanno basi di consenso che vengono da lontano. La più apprezzata riguarda il taglio dei costi derivanti dal licenziamento di 345 tra deputati e senatori. I grillini, fautori della proposta concordata col Pd in occasione della stipula del patto di governo, sostengono che ne deriverà un risparmio di 500 milioni di euro, numero nettamente smentito dal centro studi diretto da Carlo Cottarelli (il risparmio non andrebbe oltre i 50 milioni annui).
La sostanza però non cambia: l’ostilità verso il ceto politico “a prescindere” è materia nota almeno dalla fine della Prima Repubblica ed è largamente maggioritaria nell’elettorato. Il segno antipolitico della consultazione è d’altronde figlio dei programmi di svalutazione e mortificazione della politica tradizionale sostenuti dal M5S sin dal suo nascere.
Un Pd meno accomodante e capace di affrontare una seria competizione con gli alleati di governo avrebbe qualche chances di affermazione contrapponendo una visione pienamente politica a una deriva esplicitamente antipolitica. Ma non è questo il caso: nel Pd prevale oggi chi cerca un’alleanza strategica con i grillini in contrapposizione al centrodestra, dunque non è il caso di andare troppo per il sottile in battaglie dal sapore vagamente ideologico.
Quali conseguenze determinerà il referendum? Sul piano pratico poche, salvo assegnare ai futuri parlamentari eletti un potere ancor più esteso di quello di cui si giovano oggi. Problemi di efficienza nell’attività legislativa si verificheranno soprattutto nei lavori in commissione, dove la riduzione dei numeri assegnerà a pochissime persone il compito di affrontare temi anche molto complessi.
Il significato più rilevante del referendum riguarda invece due aspetti.
Il primo: si certifica la crisi della democrazia rappresentativa a vantaggio di una tuttora nebulosa sperimentazione di democrazia diretta sinora approdata al solo uso interno dei Cinquestelle e del tutto estranea alle fondamenta costituzionali.
Il secondo: il taglio dei parlamentari, al di là della sua apparente marginalità, colpisce al cuore la centralità del Parlamento a favore di una visione sostanzialmente autoritaria dell’equilibrio tra i poteri. Il referendum ripropone la contrapposizione tra popolo ed élite, in apparente riequilibrio a sostegno del primo. È come se il popolo avvertisse il Parlamento: attento, se non servi a niente possiamo fare a meno di te.
È una prospettiva pericolosa ma non ne siamo lontani. Presto si dirà che l’elezione tradizionale di deputati e senatori è antiquata, meglio dunque affidarla a una piattaforma in rete e votare con un clic. Se questa è la strada della nuova democrazia, è bene che tutti ne siamo consapevoli.
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Amara e splendida analisi che dovrebbe arrivare alle alte sfere!
Diranno, sia a sinistra che a destra, che c'è un disinteresse della politica, in particolare dei giovani, diranno che molti non votano perché pensano che, […]
Continuano gli straordinari successi elettorali dell'area riformista liberaldemocratica,che si ostina a schierarsi sempre indissolubilmente nel campo del centrosinistra senza mai beccare nemmeno un consigliere,cosi' come […]