L’antropologia criminale accese il dibattito

Torino, Museo di antropologia criminale Cesare Lombroso

Il dibattito che alla fine dell’Ottocento riguardò il problema del rapporto tra criminalità e individuo coinvolse molti intellettuali, politici e giuristi dell’epoca, specie quelli più sensibili alle nuove idee espresse dal positivismo. Fra costoro si distinse Camillo Prampolini, che all’argomento dedicò studi e riflessioni molto approfondite sul giornale Lo Scamiciato, voce del popolo, di Reggio Emilia.

Alla convinzione di molti socialisti secondo la quale il delitto sarebbe la risultante del solo sistema sociale in vigore che l’avvento del socialismo avrebbe fatto scomparire, Prampolini negava che il solo affermarsi della società socialista fosse sufficiente ad eleminare i reati, affermando che sentimenti e azioni erano la risultante di due principali fattori: “l’organismo vivente, ossia il corpo umano, e l’ambiente, cioè tutto ciò che lo circonda e che può influenzare i nostri sensi”.


Allo stesso professore Enrico Ferri che imputava ai socialisti troppo ottimismo nella forza salvifica del socialismo, Prampolini rispose tramite Lo Scamiciato il 7 ottobre 1883 con queste parole: “Le azioni umane (e quindi anche il delitto) sono sempre il prodotto di due fattori: l’organismo vivente, ossia il corpo umano e l’ambiente, ossia tutto ciò che ne circonda e che può impressionare i nostri sensi”.

E più avanti: “…credono i socialisti che sentimenti e azioni dipendano tanto dall’organizzazione speciale degli individui, che dall’ambiente sociale”.
E finalmente: “…non è punto vero che noi crediamo che, dato il collettivismo, non vi saranno più delinquenti. Niente affatto. Noi diciamo solamente che scompariranno allora quei reati- e non sono pochi davvero- che dipendono precipuamente dall’azione speciale che esercita sugli individui l’odierno sistema sociale”.
“…L’affermazione ottimista che egli (Ferri) ha preso a combattere non è punto la nostra affermazione”.

Tali convinzioni superavano pertanto quelle del fondatore della scuola di “Antropologia criminale”, Cesare Lombroso, secondo il quale era possibile ricondurre il carattere criminale dell’individuo a determinate caratteristiche fisiche e psicologiche, anche ereditarie, che ne facevano il “delinquente nato”. Considerazioni, specie quelle fisiognomiche, che si sarebbero rivelate del tutto prive di riscontri scientifici.

Con le sue tesi Lombroso finiva per negare valore alla teoria del libero arbitrio, poiché il soggetto doveva essere considerato e trattato come un malato, quindi doveva essere curato.

Prampolini pur dicendosi d’accordo con Lombroso nel negare valore al libero arbitrio, rimarcava, in sintonia con Turati, l’importanza dei condizionamenti esterni sull’individuo, specie quelli di natura sociale.

Da qui l’importanza che egli attribuiva all’educazione e all’emancipazione delle classi sociali più povere, nella prospettiva di risollevarle dallo sfruttamento e dall’abbruttimento delle condizioni di vita a cui erano condannati e che potevano portare alla violenza e al crimine.

Fra Prampolini e Turati, a partire da quelle riflessioni, nacque un’amicizia e un sodalizio destinato a durare tutta la vita. Anche Napoleone Colajanni condivise le sue tesi, tanto da richiedere l’intera collezione del giornale Lo Scamiciato.
A conferma della stima nei confronti di Prampolini, Colajanni nella sua opera Socialismo e sociologia criminale del 1884 lo indicava tra i quattro maggiori socialisti italiani accanto a Turati, Costa e Candelari.

Fra gli estimatori di Prampolini infine si era associato anche il professore Enrico Ferri, che in diverse circostanze e saggi non esitò a citare l’elaborazione a cui era giunto Prampolini come una delle più lucide e approfondite ricerche socio-politiche. Il socialista reggiano aveva saputo associare agli elementi oggettivi dei maestri positivisti, una concezione del socialismo non più deterministica ma riformatrice, capace di cogliere oltre agli aspetti naturali, i condizionamenti sociali a cui era soggetto l’individuo.

Accanto dunque al nucleo socialista milanese di Turati e a quello romagnolo di Costa, emerse, conquistando una notorietà nazionale, anche quello reggiano di Prampolini. Si trattava di un lavoro intellettuale acuto e molto raffinato non fine a sé stesso ma finalizzato all’agire politico.

A ben vedere già in quelle discussioni, al di là del proclamato rivoluzionarismo, si poteva scorgere la prospettiva gradualista del socialismo italiano il cui messaggio si riassumeva in queste parole “legalitari oggi, per essere rivoluzionari domani”.