Quante divisioni ha la Sinistra?

Congresso LivornoOKanna (importato)

di Domenico Savino

Sullo sfondo di una pandemia che ha sconvolto l’intero pianeta (come mai dalla seconda guerra mondiale ed assai più dell’11 settembre e del crack Lehman), si staglia sul Belpaese, incomprensibile ai più, ma inevitabile quanto coerente con le “leggi della storia”, il profilo ineguale della 72^ “crisi di governo” dai tempi del “Badoglio I”, che successe a se stesso, prima che pure Bonomi succedesse a se medesimo e iniziasse, con l’interludio del Governo Parri, la lunga serie dei Governi della Repubblica “a successione automatica”, il cui primato è detenuto da Alcide De Gasperi, che tra il dicembre del ‘ 45 e l’agosto del ’53 succedette per 8 volte a De Gasperi Alcide.

Decisamente un successone!

Questa volta, invece, cioè nell’anno di grazia 2021, il successore del “Conte I” non è potuto succedere a se stesso, neppure per dare vita al “Conte-ter”, semplicemente perché è in atto una crisi in cui non è successo nulla, tranne che una “crisi senza crisi”, che è un po’ come una passione senza sesso, un lampo senza tuono o un cielo cupo e plumbeo, in cui tanto tuonò, che non piovve.

Per capire ciò che sta accadendo, è utile rileggersi l’ ultima fatica politico-letteraria (prima della prossima che sta per uscire sul Congresso di Livorno e la nascita del P.C.d’I.) dell’immaginifico onorevole Mauro Bue, socialista mai pentito, già deputato alla Camera ai tempi di Craxi, membro della Commissione Cultura, Scuola e Sport della Camera, vicesindaco e assessore di giunte di sinistra, ma pure sottosegretario di un governo di centrodestra, assessore della Giunta Del Rio, presidente de “I Teatri” di Reggio Emilia, giornalista tra l’altro sportivo, critico musicale, Direttore dimissionario de “L’Avanti on-line” e mille altre cose ancora.

Insomma uno che – contrariamente a ciò che potrebbe apparire – è l’esatta antitesi dell’onorevole “Lello” Ciampovilli, non solo per spessore culturale o perché non si fa “le canne”, ma soprattutto perché non laverebbe mai gli alberi di olivo (per ripulirli dalla xilella) con il sapone. Anzi non li laverebbe affatto (casomai funzionasse), essendo l’onorevole Del Bue versato nelle liberales artes e per nulla incline alle “opere servili” (come le definiva il Catechismo Maggiore di San Pio X alla citazione 394).

Il volume di cui dicevamo, pubblicato oramai oltre due anni or sono dalle Edizioni Città del Sole (che ci rimandano all’Utopia di Tommaso Campanella, cioè a nulla di più lontano nella sua “oppressiva virtù” dall’armonico, libertario e un po’ libertino “caos delbuiano”), s’intitola “L’Unità” e reca come sottotiolo “storia di divisioni, scissioni, espulsioni e sconfitte della sinistra italiana”.

Contando che il titolo scelto, “L’Unità”, è quello del quotidiano comunista fondato da Antonio Gramsci e che fu scelto da Del Bue in beffarda polemica con l’ex-democristiano Matteo Renzi, che facendo il verso a Macron, scippava a sua volta al quotidiano socialista il titolo per il suo libro “Avanti-Perché l’Italia non si ferma” e considerato altresì che oggi Mauro Del Bue si dimette dall’Avanti in polemica (ma precisando che “non è il momento delle polemiche”) con i suoi compagni di partito, che scelgono a tempo abbondantemente scaduto Conte (mentre lui sembra riconoscere le ragioni politiche di Renzi), la rilettura di quel volume è un folgorante lampo di luce sul presente.

Con penna intinta nell’inchiostro di una graffiante autoironia, che ci fa percepire i rumori, gli odori, gli umori e persino i sudori di quel soffocante agosto del 1892 a Genova, Del Bue dipinge la “stato nascente” di una Sinistra in cui era talmente forte, incoercibile, ineluttabile la volontà di dar vita ad un partito dei lavoratori, che … ne nacquero due: “Urla, apostrofi, grida, ruggiti. Il pandemonio continua. Tutta la sala è in piedi… A stento Prampolini, fattosi alla ribalta, riesce a domare il baccano” – certifica il verbale d’assemblea.

E Prampolini infatti concluderà: “Lasciamoci senza rancore”. Non era che l’inizio.

Nella Sala Sivori restano gli anarchici, mentre i socialisti, dopo essersi fermati alla trattoria di via Pollaioli, si trasferirono in via della Pace, dove però Carlo Monticelli sostenne subito la necessità di un ritorno al lavoro comune e Andrea Costa, che in Via Pollaioli era assente, prese subito le distanze da quella decisione di separarsi dagli anarchici, lui che per primo se ne era separato nel 1879 per iniziare un lungo percorso che lo avrebbe portato, primo socialista, a guadagnare una poltrona da deputato alla Camera.

E così a Genova il deputato Costa, dopo aver parlato tanto alla Sala Sivori che in via della Pace, si dileguò coi suoi, mantenendo vivo per sé il Partito socialista rivoluzionario in Romagna, senza aderire a nessuno dei due neonati partiti, salvo aderire poi a quello socialista, ma solo dopo avere perduto nel novembre successivo il proprio seggio alla Camera, proprio mentre il partito socialista ne guadagnava invece dodici. E non sarà un’adesione infruttuosa, visto che negli ultimi due anni di vita otterrà per sé la Vicepresidenza della Camera.

Frammisto talvolta a quello di opportunismo, lo “spirito di scissione” che Gramsci, citando Georges Sorel, esaltava come capacità delle classi oppresse di rompere l’egemonia ideologica ed etica dei gruppi dominanti, sarà invece iscritto nel codice genetico della Sinistra, sì da “svuotarla del suo elemento di massa umana”.
Da allora sarà una sequenza implacabile: Ferri contro Turati, sindacalisti rivoluzionari contro riformisti, riformisti contro riformisti, massimalisti rivoluzionari contro riformisti, poi interventisti contro neutralisti ed entrambi contro i pacifisti. Dapprima, riguardo alla Grande Guerra il motto “non aderire e non sabotare”, poi quello della “difesa del suolo patrio”, poi il dopoguerra e la nascita – sissignori! – della prima “costola della Sinistra”: il Fascismo, nella versione “sansepolcrista”, laicista e di sinistra, ma anche nazionalista e già prodigiosamente mimetica.

Poi ancora, mentre il Fascismo avanzava, proprio allorquando il PSI, diventando la prima forza del paese col 32% dei voti, era talmente forte da rischiare di vincere, la lotta interna per non dividersi in due fu tale che il partito si spaccò… in tre.

E il paradosso fu che nel 1921 i comunisti se ne andranno da un partito nient’affatto guidato dai riformisti, ma dai massimalisti, che a pochi giorni dalla Marcia su Roma, non contenti dell’uscita dei primi, cacciarono anche i secondi. Ma il leader della corrente massimalista Giacinto Menotti Serrati sul suo Avanti dichiarava essere “sempre stato comunista”, al punto che cacciati i comunisti dopo averli difesi da Mosca, se ne andrà tre anni dopo con un gruppo di terzinternazionalisti proprio nel P.C.d’I.

E questo “dopo che al congresso dell’anno prima Pietro Nenni, che al PSI aveva aderito nel 1921, lo metterà in minoranza sulla proposta di fusione dei socialisti coi comunisti”. Naturalmente in questo straordinario guazzabuglio l’attentato a Mussolini del 1924 non fu affatto ordito – come sarebbe logico pensare – da un massimalista o da un comunista, ma dal riformista Tito Zaniboni.

La temporanea riunificazione dei socialisti al Congresso di Parigi del 1930 non poteva che essere accompagnata dall’ennesima scissione, quella del ristretto gruppo aggregatosi attorno ad Angelica Balabanoff, che si portò via pure la testata dell’Avanti, obbligando il PSI a fondare il Nuovo Avanti, mentre intorno ai Rosselli, Lussu e Treves si aggregava un nucleo significativo di persone ispirate da un “socialismo liberale”.

I comunisti, intanto, oscillavano tra l’attrazione sovietica e gli appelli ai “fratelli in camicia nera” di Togliatti, sicché non stupisce affatto ritrovare uno dei fondatori del Partito Comunista, Nicola Bombacci, amico di Lenin, rientrare in Italia col beneplacito del Duce, fondare un giornale dal titolo “La verità” (facendo eco a La Pravda) e finire i suoi giorni accanto a Mussolini nella “macelleria messicana” di piazzale Loreto.

 

Lo spirito di scissione aleggerà incessante sull’intero dopoguerra, investendo non solo l’area socialista con la scissione di palazzo Barberini e i vani tentativi di riunificazione socialista, ma anche il campo comunista, con la frammentazione della sinistra extraparlamentare, la tentazione della “lotta armata”, la suggestione dell’unità nazionale e l’attrazione verso il mondo cattolico, l’assassinio di Moro, l’ultima defatigante impresa dell’Unità socialista di Bettino Craxi, naufragata nella stagione di Mani pulite, fino al dramma umano e politico della Bolognina.

Poi sarebbe venuta la stagione governativa… Inutile andare oltre: “quando la Sinistra è al Governo c’è sempre una Sinistra che l’affossa”, titola un paragrafo del libro, ricordando la stagione breve in cui, non potendolo fare altri, toccherà a Fausto Bertinotti, un ex-socialista lombardiano, rendere operativo il “cupio dissolvi”.

Oggi è toccato a un boy scout (semel scuot, semper scout), ex-democratico cristiano (che aveva trovato asilo per formare il suo gruppo parlamentare sotto il simbolo socialista di Nencini), impedire che la trazione giacobina innestata dalle forze egemoni della maggioranza, avesse il sopravvento.

Per tornare al libro, godibilissimo, se lo si vuole davvero capire e coglierne la sottile, attualissima “profezia”, varrà la pena sottolineare che siamo in presenza un autore immaginifico, che ha fatto dell’autonomia socialista una vera ragione di vita (e non solo politica), sicché leggendo quel libro si capisce che “l’unità” è una cosa talmente importante, da potersi persino separare…

P.S.: il titolo l’immaginifico non è scelto a caso.

L’invenzione di questa parola è attribuita a Salvini.

No, non Matteo, ma Anton Maria Salvini, grecista del ‘700, che nel tradurre Platone cercava una parola che rendesse il termine greco eidolopoiós: trovò “immaginifico” – o meglio, come usava ai tempi, “imaginifico”.
Così fu chiamato il Vate Gabriele D’Annunzio, “fascista per caso”, in realtà poeta libertario e vitalissimo.

E immaginifica certamente fu la sua progressista (socialista?) “Carta del Quarnero”, un “governo schietto di popolo”, in cui “tre sono le credenze religiose collocate sopra tutte le altre nella università dei Comuni giurati: la vita è bella, e degna che severamente e magnificamente la viva l’uomo rifatto intiero dalla libertà; l’uomo intiero è colui che sa ogni giorno inventare la sua propria virtù per ogni giorno offrire ai suoi fratelli un nuovo dono; il lavoro, anche il più umile, anche il più oscuro, se sia bene eseguito, tende alla bellezza e orna il mondo.”

Per dire a volte quant’è rotonda la politica…

di Domenico Savino (direttore della Fondazione dello Sport del Comune di Reggio Emilia)