Ho conosciuto Paolo Lanzi nel 1995.
Mi fu presentato dal direttore di questo giornale.
Da subito ci fummo reciprocamente simpatici: io dicevo qualcosa di vagamente politico e lui partiva con la sua parlantina in perfetta lingua italiana.
Moderato nella durata dell’esposizione, accompagnava la sua oratoria con un’espressione particolare della bocca che generava un allargamento sonoro delle vocali e relativo abbassamento del volume di voce.
Altrettanto efficace il non verbale con il tipico gesto della mano: il palmo o il dorso ai lati della bocca, a destra o a sinistra della rima buccale a seconda di affermazione perentoria o di semplice confidenza.
Avevo imparato a conoscere bene tali caratteristiche segnaletico-etnologiche, tipiche dei reggiani d.o.c. di antica generazione, sin dal mio arrivo a Reggio come psichiatra nel 1978.
Ascoltando Paolo, prima di tutto, più che il contenuto di ciò che diceva, mi catturavano i suoi movimenti del corpo, mai eccessivi o sguaiati, ma caratterizzati da espressioni per me umoristiche. Ridevo a crepapelle e lui riprendeva il mio riso con un’espressione da bambino, gli occhi spalancati e le sopracciglie alzate ad arco sotto la sua lucida calvizie, e rideva, rideva anche lui.
Ma mi colpivano anche i contenuti, mai banali, nemmeno quando raccontava gossip su personaggi a me noti ma anche ignoti, personaggi più o meno pubblici, cui affibbiava spesso dei divertenti soprannomi.
Un soprannome lo aveva dolcemente attribuito anche alla moglie Luisa. Con fare complice con i maschi adulti con cui si intratteneva, la chiamava Santippe: provvidenzialmente severa moglie di Socrate, famosa per i suoi rimproveri al marito filosofo ateniese del quinto secolo a.C. che, la sera, tornava a casa troppo tardi e rischiava di perdersi nel buio della notte (bellissima metafora, per Paolo).
Quando venne a sapere dal direttore che, a Reggio, si era formata una Comunità, sia pure virtuale, detta “Comunità dei Riconoscenti”, ne fu subito incuriosito ed iniziò a frequentarci.
Frequentava le serate o giornate di meditazione, di condivisione, condite dalle mie chiaccherate, sempre aperte a tutti.
Quando venne a sapere che ero stato discepolo diretto di Bhagwan Shree Rajneesh, più conosciuto ora come Osho, la sua simpatia non solo nei miei confronti, ma anche nei confronti di tutti gli altri Riconoscenti, crebbe di molto, come lui ebbe a dirmi.
Paolo, infatti, da qualche anno leggeva quasi solo testi di maestri buddhisti e di Osho, soprattutto da quando era uscito dal mondo sindacale. Mai aveva abbandonato la sua vorace curiosità nei confronti di tutto ciò che gli sembrava “nuovo” o “strano”, ancorché collettivo, organizzato e facilmente sperimentabile di persona.
Il sociologo degli anni ruggenti di Trento non si è mai messo da parte in Paolo, e sempre lo ha animato sia pure in sottofondo, fino alla fine.
Questo lo posso dire con certezza perché, già in condizioni di sofferenza e fragilità, quando io e mia moglie lo andammo a trovare in Neurologia, agli inizi di Febbraio, non solo ci riconobbe subito, ma lui mi invitò ad osservare gli altri degenti ed i loro familiari presenti nella saletta delle visite, per fare loro una diagnosi psicosociologica.
Poi iniziò a cantare una canzone di montagna, ed io dietro a lui, all’inizio a basso volume, poi sempre più alto, finché anche qualcun altro tra la ventina dei presenti si aggiunse a noi, nel canto de “La Montanara”. Così Paolo si disse finalmente soddisfatto.
Dava ordini organizzativi a tutti, degenti e personale sanitario, così non solo il sociologo, ma anche il sindacalista venivano allo scoperto.
Ma in quell’occasione è venuto fuori anche il Paolo sensibile, attento, mettendo allo scoperto, chiedendoci delle nostre figlie, quel senso paterno che lo ha spesso accompagnato nei nostri incontri.
Lui, dei suoi dolori da disillusione politica e sindacale, mai si è lamentato con me. Sono venuto a sapere delle sue vicissitudini sociali solo in questi giorni da sua moglie e da un suo amico che lo conosceva bene. Spero che se ne sia andato con questo groppo ben risolto.
Comunque Paolo, ben presto dopo l’inizio della frequentazione della Comunità dei Riconoscenti, mi rivolse la richiesta di poterne fare parte in modo formale.
Energia, questo fu, da allora, il suo nome spirituale.
Partecipò attivamente a molte attività svolte e fu proprio lì che si fece conoscere per la sua cultura, il suo irresistibile umorismo, la sua disponibilità alla risata condivisa, la sua abilità nello sdrammatizzare ogni inizio di conflittualità.
Paolo Energia si fece conoscere anche per la sua sensibilità. Accadeva spesso di vederlo commosso quando ascoltava le storie delle persone, sapendo coglierne l’umana fragilità, la preziosità delle loro vite, ancorchè le difficili prove vissute.
Era un progressista e tendente al Socialismo riformista non solo in Politica, ma anche in Comunità.
Diede vita al gruppo che chiamò “Kairòs” (dal greco: momento giusto, opportuno) ed organizzò alcune giornate di passeggiate sulle colline e sui monti del nostro Appennino e giornate di pulizia del fiume Enza, cui parteciparono, entusiaste, diverse persone.
Lo ricordo quando sua madre, negli ultimi anni di vita, era ospitata presso la residenza per anziani di Villa Cella. A Cella lui era nato e vissuto a lungo per tutta la sua giovinezza.
Era molto molto legato alla mamma e soffriva per la scelta dolorosa di doverla fare assistere da altri, anche se in un luogo protetto ed assistenzialmente preparato.
Nonostante le rassicurazioni che io stesso gli feci riguardo alla scelta che aveva fatto, rimase con un discreto senso di colpa.
La Via Emilia, Cella… ah… quando Paolo parlava di questo si illuminava… la Via Emilia polverosa… il giro d’Italia… la Mille Miglia… le macchine dei signori, passavano assieme alle biciclette, alle moto con i sidecar… davanti ai suoi occhi e a quelli nostri.
I suoi racconti erano così vivi che ci permettevano di odorare anche il profumo dell’erba e del fieno, nonchè di udire il timido muggito delle vacche pascolanti.
Tante storie di fattorie con l’aia, centro della vita dei reggiani di campagna di un tempo.
Paolo, incoraggiato da me e da qualche altro che già aveva fatto questo passo, chiese il nome spirituale alla Comunità di Osho con sede a Pune (India).
Il nome che ricevette fu Dhyan Moksha, tradotto dal sanscrito “Liberazione attraverso la meditazione”.
Di Osho, appezzava moltissimo, come me d’altronde, l’indicazione data a tutti i suoi discepoli di diventare come “Zorba il Buddha”.
Quindi un essere che pratica la compassione e capace di guardare alla realtà con occhio attento al suo aspetto sofferente, ma al tempo stesso transitorio (Buddha). Tenendo insieme anche la parte capace di godere appieno di tutti i sensi, di apprezzare la semplice e buona tavola, di godere delle espressioni artistiche (Zorba).
Era frequente la scena in cui lo vedevamo danzare il celebre Sirtaki, colonna sonora del famoso film “Zorba il greco” di Mikis Theodorakis.
Ballava molto seriamente quando la musica si levava alta dalle casse sonore, ed era questa sua serietà nel danzare, che ci faceva tutti sorridere.
Ecco Paolo, Paolo Lanzi…Energia…Dhyan Moksha, ci hai lasciati a piangere e a celebrare la tua memoria il giorno otto aprile duemilaventi, giovedì della Settimana Santa.
Ci hai lasciati con la tua immagine gioiosa, capace di portare gioia, esattamente come l’Energia di Zorba il Buddha…ovunque tu sia, ovunque tu vada, il sottile filo della silenziosa magia che ci ha fatto incontrare rimarrà in noi vivo e pulsante di affetto.
Grazie!
Meraviglioso ricordo che scaccia tutte le rievocazioni in salsa pansindacale e politica. Grazie Veniero per questo ricordo di un amico col cuore grande.