Per la pace. La lettera dell’Epifania

don Giuseppe Dossetti Centro Giovanni XXIII Reggio Emilia

Dopo essersi manifestato a Israele, rappresentato dai pastori, il Natale si rivela ai popoli pagani, rappresentati dai Magi. Domenica prossima, festa del Battesimo di Gesù, la luce dell’Incarnazione raggiungerà l’universo, realizzando così l’ultima e perfetta manifestazione, in greco Epifania.

I profeti avevano annunciato la grande luce, che avrebbe convocato a Gerusalemme tutti i popoli: “Su di te risplende il Signore, la sua gloria appare su di te. Cammineranno le genti alla tua luce” (Is 60,2s.).

Gerusalemme non avrà paura di questa invasione: “Allora guarderai e sarai raggiante, palpiterà e si dilaterà il tuo cuore”. Gli stranieri porteranno ricchezza: “Verrà a te la ricchezza delle genti; uno stuolo di cammelli ti invaderà, tutti verranno da Saba, portando oro e incenso e proclamando le glorie del Signore”.

E’ facile il confronto con l’egoismo arcigno con il quale ci si vorrebbe difendere dall’arrivo degli stranieri. Dobbiamo difendere i confini d’Europa, si dice. Quali confini, come e perché? Si dirà: occorre distinguere il piano religioso da quello politico o turistico o economico. Ben vengano gli stranieri per il Giubileo: porteranno ricchezza e torneranno a casa loro. Non sono loro a minacciare la nostra sicurezza. E allora, da chi dobbiamo difenderci? Dai barconi, dai poveracci, dai bambini, che hanno visto affogare le loro madri?

Mi rendo conto che non si può applicare il testo biblico in modo letterale, all’agire politico e che tanti problemi sono reali e di difficilissima soluzione. Neppure Israele, diretto destinatario delle parole del profeta, le applica alla sua situazione geopolitica. Mi chiedo però, se dobbiamo rinviare tutto alla fine dei tempi, oppure se possiamo trarre qualche ispirazione, per affrontare il dramma delle migrazioni e dei disequilibri tra le nazioni, per non parlare delle guerre: sembra che la guerra sia la condizione normale dell’uomo (qualche sociologo o psicanalista lo ha sostenuto), mentre la pace viene delegata all’intervento divino, normalmente inascoltato.

Qualcosa, però, mi sembra apparire da questi testi affascinanti. Le nazioni vanno a Gerusalemme perché sono alla ricerca della luce. Tutti sono alla ricerca, se basta il chiarore di una stella per spingere i Magi a un lungo e difficile cammino. Questo vale per tutte le migrazioni della storia: i popoli si mettono in moto perché c’è una speranza, una promessa, magari un’illusione. Isaia vede, nell’afflusso dei popoli, il compimento della promessa fatta ad Abramo: “Nel tuo nome saranno benedetti tutti i popoli della terra” (Gen 12,3). L’evangelista Giovanni riprende la profezia, ma la concentra e nello stesso tempo la dilata: “Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (Gv 1,9). La promessa si concentra nella persona di Gesù: “Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto, grazia su grazia”; ma si dilata al di là dell’Israele storico, nel “Mondo”, nella totalità, che anela e respinge: “Il mondo è stato fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo ha riconosciuto”.

“Il Verbo si è fatto carne, pieno di grazia e di verità”. Gerusalemme non è più solo una città, ma è il luogo, ogni luogo della Presenza. Per questo, Gerusalemme non ha paura degli stranieri, è pronta a dividere con loro le sue ricchezze spirituali, quelle che non possono essere rubate. Possiamo fare un discorso laico: la paura è sintomo di insicurezza, e l’unica difesa diventa il respingimento. Mi pare sia questa la condizione dell’Europa: si vagheggia la libertà, ma si hanno forti dubbi sull’uguaglianza, e la fraternità non si sa che cosa sia. Quando un popolo non ha più un fondamento spirituale, perde la sua identità e diventa l’appendice di qualche impero. Temo che questo sia ciò che sta succedendo. La sfida del Giubileo, dedicato alla speranza, è proprio quella di ritrovare un fondamento. Ci aiuta il riconoscere la stella, il desiderio che guida ogni uomo.




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