Come già Maradona, anche Paolo Rossi si è tramutato da giocatore di calcio a icona globale. Non che le qualità tecniche di Pablito fossero paragonabili a quelle di Diego Armando, ma in questa lettura conta poco. Se il calcio è racconto epico contemporaneo, i campioni sul terreno si trasformano in icone, la cui stella è destinata a brillare per sempre.
Paolo Rossi non è mai stato il più forte calciatore al mondo, nemmeno in quel favoloso mundial spagnolo del 1982, quando si consumò la sua breve e definitiva ascesa tra le divinità del pallone portando da solo – baciato dalla gloria – l’Italia più in alto di tutti. La sua fu una storia di riscatto e la scrittura di quei giorni ne offrì una trama favolosa.
Era un giovane dal volto pulito, fisicamente esile, e veniva da una squalifica di due anni per questioni legate al calcio scommesse. Quei due anni grami vennero derubricati a peccato di gioventù ma non prima che il suo mentore in panchina, il friulano Enzo Bearzot, rischiasse il posto per troppa insistenza nello schierare il ragazzino che inanellava pessime esibizioni a inizio mondiale.
La Nazionale finì in un girone bello e impossibile: avrebbe dovuto scalare le montagne con l’Argentina di Maradona e con il sontuoso Brasile di Zico, Falcao, Socrates – impresa considerata dai più semplicemente non praticabile.
L’impossibile invece avvenne. Nei pomeriggi afosi di quell’estate che chi abbia più di quarant’anni ricorda perfettamente si consumarono momenti di gloria collettiva tali da chiudere definitivamente le porte ai tormentati anni di piombo. Le esultanze tornano come flash dalla memoria profonda: le tivù accese dappertutto a metà pomeriggio di giorni feriali, le grida, gli abbracci, le sfilate in decappottabile lungo le strade del centro, i bagni nelle fontane… Quei giorni furono un passaggio catartico nella storia degli italiani. Aldo Cazzullo scrisse che in quel momento i giovani romani passarono dalla bandiera rossa a quella giallorossa. Di sicuro, gli italiani da nord a sud scoprirono l’orgoglio della maglia azzurra e del tricolore, mai tanto esibito come allora.
Oggi Pablito, il nostro eroe nascosto in un angolo della giovinezza, ha lasciato il corpo. La coincidenza con la recente scomparsa di Diego Maradona mette impressione. Ha scritto bene Marco Truzzi: è finita l’estate. Come negarlo? Il nostro colore di allora era l’azzurro, simbolo di purezza, il volto emaciato e felice di Pablito, la gioia contagiosa di cui cantava Venditti, Pertini che dalla tribuna del Bernabeu si agitava con la pipa: “Non ci prendono più”.
Decine di migliaia di italiani quell’estate si recarono in Spagna per ritrovare qualcosa di quel mondiale pazzesco. La Spagna usciva dalla dittatura di Francisco Franco e ritrovava la voglia di vivere nelle arti, nel cinema, nella musica e nella movida. Deposta la bandiera rossa, i giovani si incamminarono verso la vita adulta con la certezza di avere un angelo in più nel proprio pantheon di amori ideali: Pablito, eroe normale, prescelto dal cielo per regalarci un sogno azzurro di immortalità.
Non era il più forte e non era nemmeno fra i più forti di quella Nazionale, ma colse l’attimo, lui divenne immortale quel giorno al Sarria… avevo 18 anni e ricordo attimo per attimo cosa accadde in casa, dove eravamo seduti e le parole che ci scambiammo io e mio padre nel guardare la partita ,poi tutto il resto.
Del mio Matrimonio e della nascita dei miei figli ho ricordi più confusi.
Quell’uomo così Normale , anche nel nome e cognome (forse i più diffusi allora nel nostro paese) aveva carpito una parte della mia memoria e del mio cuore per sempre.