Nelle prime ore del mattino di lunedì 7 aprile, nelle province di Reggio e Mantova, nonché presso la casa circondariale di Voghera, in provincia di Pavia (PV), è scattata l’operazione “Sugar Beet”, culmine di un’articolata indagine anti-‘ndrangheta coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Bologna.
I Carabinieri del Ros (Raggruppamento operativo speciale) e del comando provinciale di Reggio hanno dato esecuzione a un’ordinanza cautelare – emessa dall’ufficio del giudice per le indagini preliminari del tribunale di Bologna – nei confronti di sei persone, accusate a vario titolo di trasferimento fraudolento di valori in concorso e di elusione in concorso dei provvedimenti di confisca emessi in sede penale e di prevenzione patrimoniale: reati che, secondo l’accusa, sarebbero aggravati dall’aver agevolato i clan della ‘ndrangheta presenti in Emilia-Romagna. Uno degli indagati è stato arrestato e portato in carcere, mentre per gli altri cinque è scattata la misura degli arresti domiciliari.
Contestualmente è stato anche eseguito il sequestro preventivo di una società di trasporti e autotrasporti per conto proprio o per conto terzi situata in provincia di Reggio, intestata fittiziamente a prestanome, comprensiva di quote sociali e beni per un controvalore complessivo di circa 250.000 euro.
A far scattare l’indagine sulla società reggiana è stata una segnalazione per “operazione sospetta” inoltrata dal Consiglio nazionale del notariato, che aveva rilevato, durante la preparazione degli atti necessari alla costituzione della società, la presenza informale di una persona già nota alle cronache per i suoi precedenti giudiziari, relativi in particolare alle inchieste anti-‘ndrangheta “Grimilde” e “Perseverance” della Dda di Bologna.
L’analisi dei rapporti bancari e gli approfondimenti sulla documentazione contabile e societaria, insieme alle intercettazioni disposte ad hoc, hanno consentito agli inquirenti di accertare come la società fosse stata intestata a due prestanome, ora indagati, che ne avrebbero accettato consapevolmente la titolarità solo formale, rendendosi in questo modo complici del socio occulto.
Non solo: le indagini hanno rilevato anche come tale società esercitasse le stesse attività imprenditoriali di altre società precedentemente confiscate, prendendone di fatto il loro posto – “ereditandone” anche i fornitori e i clienti più importanti – e aggirando così i provvedimenti ablatori emessi a carico di queste ultime (con conseguente improvvisa e drastica riduzione dei ricavi per le aziende confiscate e passate in mano allo Stato).
Le indagini, infine, hanno documentato l’interesse degli indagati a operare con le imprese presenti nella cosiddetta “white list” (l’elenco ufficiale delle imprese ritenute non a rischio di infiltrazione mafiosa) per infiltrarsi nel settore degli appalti pubblici. Nei confronti di due degli indagati, inoltre, è stato contestato il reato di tentata induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria, aggravato dalla metodologia mafiosa.
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