Made In The Sixties, nuovo album di Mike Sponza

E’ uscito “Made In The Sixties”, il nuovo album di inediti di Mike Sponza personale omaggio del bluesman italiano agli anni Sessanta. 
Dieci tracce, una per ogni anno del decennio, in cui Mike Sponza racconta sia la parte scintillante che la parte più buia di questo periodo storico, parlando, tra gli altri argomenti, della guerra fredda e della crisi cubana, dell’assassinio di John Fitzgerarld Kennedy, della svolta artistica di Bob Dyan e del movimento studentesco del ‘68.
 
Perché Mike, sei così ossessionato dagli anni sessanta?
 
Perché fin da bambino sono stato esposto a tutta una serie di input musicali e artistici, che ho sentito l’esigenza anche crescendo di seguire. Ho voluto approfondire prima di tutto la conoscenza sul mondo musicale, che io ritengo per quel periodo eccezionale e poi, cercare cosa stesse attorno alle canzoni: quale fosse l’ambiente sociale che c’era; perché la gente scriveva quelle cose. Poi gli anni ’60 sono stati un tripudio di novità, di avvenimenti che hanno cambiato il mondo: ogni anno succedeva qualcosa che spostava l’asse della cultura, della musica, di tutto.
Ho cercato storie e approfondimenti di tutti i tipi e avendo poi tutte queste informazioni sotto mano, ho pensato di farci un disco. Cose che sento, che vado a cercare, più di quello che ho fatto nel blues in venticinque anni di carriera. 
Ho prodotto il disco precedente all’Abbey Road Studios di Londra e il produttore di allora mi ha detto di sentire e coinvolgere nel disco Pete Brown, il quale mi ha risposto pieno di energia, dicendomi che sarebbe venuto da me a Trieste per una settimana: ci siamo messi a scrivere e il disco ha preso forma in modo naturale.
Ho messo insieme l’esperienza di ascoltatore appassionato e di musicista influenzato tanto da quel mondo, ma senza voler fare un omaggio nostalgico: non cerco quelle sonorità e nemmeno parlo di quello che è successo negli anni ’60 per fare lezione di storia. Il mio è un continuo parallelismo: quali sono i muri di berlino di oggi? I contrasti che governano il quotidiano oggi? Cos’è rimasto oggi di quel ’68? Cosa fanno adesso i ragazzi che sarebbero stati i coetanei di quelli di allora, di quelli che hanno fatto la rivoluzione allora? Come reagiscono alle strutture che ci sono oggi? 
C’è spazio per il blues (quello originale) in Italia? Ha ancora senso suonare blues oggi?
C’è tutto un mondo di appassionati e organizzatori, anche se sfugge dal mondo commerciale e concertistico, con una produzione ricchissima in Italia. Magari ci sono meno club di un tempo, ma tanti festival dedicati e stanno anche crescendo. In Europa, poi, ma anche qui in Italia, è nata la European Blues Union, sta facendo attività non solo di proselitismo, anche di sistema. 
Il mio disco ha una struttura e un’armonia che non appartiene a quel mondo black. Ci sono ovviamente molti elementi di blues, che è quello che ho sempre suonato fin dai 13 anni, ma al suo interno include percussioni e mescola musica elettronica e digitale e tutto quello che c’è in mezzo. Se non è blues è soul, se non è soul è rock; ma è naturale che a me, quando prendo la chitarra in mano, vengon fuori quelle cose li: la radice è quella, e quella esce sempre.
C’era una marcia in più, anche a livello musicale, negli anni ‘60?
Secondo me sì , perché i musicisti in quegli anni sono riusciti a trasformare il rock’n’roll anni ‘50 in qualcosa di nuovo e anno lasciato un riverbero nei decenni a seguire. Il decennio dei grandi cambiamenti; di nuovi suoni di chitarra e batteria; dei primi sintetizzatori; della consapevolezza dei cantanti neri di cantare cose scomode, che hanno portano nel caso di sam cook anche alla morte. Non si cantava più solo d’amore, ma la musica si faceva di denuncia sociale al sistema. La musica dava voce alla gente e cantava quello che i media dell’epoca non avrebbero mai detto. Poi, sia a livello sonoro e contenutistico, dal ‘65 in poi, c’è stata la vera svolta culturale e contro culturale del rock.


Sei considerato uno dei più grandi chitarristi blues italiani, ormai una sorta di guru del blues nazionale: tra talento, classe, ritmo ed energia: qual’è ciò che senti calzarti di più addosso?
La parola guru mi piace, fosse anche solo perché richiama gli anni ’60, ma io non insegno nulla a nessuno e soprattutto non ho le risposte che dovrebbe avere un guru, nei confronti di chi gliele chiede. A me piace essere descritto come un visionario, uno che vede delle cose in lontananza e cerca di raggiungerle: tutte le mie operazioni discografiche partono dal vedere lontano una cosa e portare la musica verso quell’obiettivo. Uno che immagina che possano succedere cose nuove, che scopre territori nuovi e là, ci porta la musica.
 
Cos’è che fa la differenza tra un bluesman e l’altro? Tecnica o cuore?
Mah… quello che mi ha toccato più di tutti è stato Louisiana Red che conobbi a Triste in un piccolo club quando ero piccolo. Negli anni ho suonato con lui tante volte e suonare con lui, significava dimenticare la tecnica musicale perché era tutto legato puramente al sentimento. Te ne sbatti di suonare bene perché devi esprimere qualcosa che va oltre, devi vivere di feeling. Poi è chiaro che senti un top come B. B. King e quella è una lezione di chitarra senza eguali. Così come Eric Clapton, o Jimi Hendrix, che trasferiscono sia tecnica che esperienza di ascolto e sentimento ai massimi livelli. 
Quello che fa grande un bluesman è la sincerità; poi la forza, la potenza anche fisica con cui suona uno strumento: molti hanno paura di far male alle chitarre; ma loro le distruggevano (metaforicamente, ovviamente), tirando fuori dal legno tutte le emozioni che potevano.
 
Sei un purista Mike, o ti apriresti alle contaminazioni?
Io sono apertissimo alle contaminazioni; sono sempre stato interessato a come aprire la mia musica ad altri tipi di musica. Il primo disco che ho comprato con i miei soldini era un 33 giri dei Beatles e siccome non era come oggi e le informazioni le potevi prendere solo da lì, ti leggevi tutto quello che c’era scritto sul disco. Iniziavi a incuriosirti, a scoprire che ci aveva suonato dentro Chuck Barris e ti andavi ad ascoltare Chuck Barris. 
Ritengo che il blues moderno debba per forza attingere da altri tipi di sonorità. Tutti mutuano dall’africa, dall’est, dal mediterraneo, dal rock. Il blues, per anni, ha vissuto una vita talebana (<<se non fai così, non fai blues>> ti sentivi dire) e a me ha sempre dato fastidio questo. Mi piace molto la collaborazione con musicisti dell’est Europa, che rielaborano il blues secondo il loro gusto musicale. Ma succede anche in Francia e in Spagna, in tutte le città legate ad esperienze musicali già fatte di tante contaminazioni anche sociali. I grandi bluesman italiani, come Zucchero e il grande Pino Daniele, sì, facevano blues ragazzi, mutuato con le contaminazioni che piacevano a loro. Mi vengono in mente Ben Harper, Charlie Musselwhite; ma sono tanti i nomi. Bisogna rischiare, anche perché elementi nuovi portano più gente ad ascoltarti.
 
Quante chitarre hai, Mike?
(ride) Meno di trenta.
Tante collaborazioni importanti, significa anche tanti amici che hanno diviso con te un pezzo della tua storia. Anche i miti hanno probabilmente il proprio: il tuo qual’e?
Il mio è stato senza dubbio B. B. King: per tutta la vita e ancora adesso lo ascolto tantissimo. Ho avuto la fortuna di conoscerlo, di parlargli tante volte. E’ stato il primo bluesman ad aprirsi a cose nuove (ha inserito gli archi nel blues, in The Thrill Is Gone) e per me è stato un grande esempio. 
Se invece vuoi sapere se mi piacerebbe conoscere altri mostri sacri, ti dico che andrei volentieri a bermi una birra con Clapton o Paul McCartney, sì! Più che suonarci, dico la verità, vorrei andarci fuori, per capire l’uomo prima che il musicista; questo mi ha sempre affascinato: tipo, cosa è successo quella mattina che ha scritto quel pezzo; come ha filtrato la realtà, qual è stato il processo mentale che lo ha portato a vedere una cosa che poi è diventata musica.
Per pura libidine personale, invece, suonare con Tom Jones. 

Tra tutte le tue canzoni, ce n’è una a cui sei legato di più? 
 
Eccome se c’è e la suono sempre. L’ho scritta quindici anni fa, tornando da un concerto fatto al carcere femminile di Venezia. Era appena nato mio figlio. E’ un’esperienza che a prescindere non affronti a cuor leggero, ma non mi aspettavo di trovare i bambini dentro la prigione e per me vederli è stato un corto circuito. Mi sono informato subito e nel tragitto, sulla barca che ci riportava alla terra ferma, ho scritto di getto un inno al crimine; di un bambino che non capisce perché è in prigione e prova a fare quello che fanno normalmente gli altri bambini, giocare. Solo che lui a disposizione ha solo le sue paure: un criminale innocente, che si chiede cosa abbia fatto per meritarsi tutto questo.
Una canzone purtroppo sempre attuale: quando vedo oggi le immagini dei bimbi in gabbia in America, mi chiedo cosa stia accadendo.
 
Disponibile anche in vinile, “Made In The Sixties” è stato anticipato in radio dal singolo “Blues For The Sixties”.