A guardarlo da Reggio Emilia, una tra le piccole capitali del comunismo italiano, il centenario della nascita del Partito comunista non celebra tanto la scissione della componente rivoluzionaria di Gramsci da quella riformista di Turati, quanto (per alcuni) il mito della forza levatrice della storia, la scoperta del fare politica in una comunità di compagni, ma soprattutto il sogno di un mondo migliore, un’utopia per la quale sentire la vita degna di essere vissuta.
È interessante seguire il dibattito in corso in questi giorni sui principali quotidiani, partecipanti Scalfari, D’Alema, Occhetto, Martelli, Bertinotti e altri big della sinistra novecentesca, da un punto di vista emiliano, ossia da una terra e da una storia che più di altre hanno dato vita e sangue alla causa.
I comunisti emiliani sono bravi ad amministrare ma non a governare, era un postulato indiscutibile a Botteghe Oscure, e in questa regione se ne è data tanta prova. Bravi ad amministrare, a organizzare le feste dell’Unità, soprattutto a votare Pci in percentuali bulgare. Pensiamo a Cavriago e al busto di Lenin tuttora collocato in piazza: ancora negli anni Novanta, la dialettica politica si giocava tra Pds e Rifondazione.
La scissione di Livorno nasce su basi esplicitamente leniniste: da noi bisogna fare come in Russia, in pratica, senza comprendere che sul piano storico la separazione dai socialisti riformisti di Turati e Matteotti non avrebbe che indirettamente rafforzato il fascismo nascente. Solo un anno e mezzo dopo Livorno ebbe luogo la marcia su Roma e si spalancarono le porte della dittatura. Esacerbare gli animi sovversivi nell’Italia di allora contribuì a solidificare violenza ed estremismi. Versare benzina sul fuoco significò compiere un errore fatale.
Nella nostalgia di molti succedanei si compongono meriti storici attribuibili alla storia del Pci, dal contributo decisivo nella Resistenza alla visione istituzionale che Togliatti seppe inoculare al partito nell’immediato dopoguerra.
Al netto delle nostalgie, peraltro, onestà intellettuale non può che registrare le sciagure che il comunismo ha prodotto nel mondo, anche in nome del riscatto degli oppressi, e la lunga scia di sangue che ne ha accompagnato l’esistenza dall’inizio alla fine. Non parlo solo dell’esperienza sovietica, ma anche, specificamente, del Partito comunista italiano.
In Emilia non vede la storia come è stata solo chi non la vuole vedere. La violenza politica in Emilia si protrasse ben oltre il 25 aprile, in forma di vendetta: non occorreva leggere Pansa per conoscere le ipocrisie compiute in nome del partito, spesso coperte da metodi fuorilegge. Ci volle Otello Montanari per lanciare il “chi sa, parli”, e venne per questo ricoperto da insulti dai sacerdoti dell’ortodossia partigiana.
I crimini del dopoguerra in Emilia sono un miserabile capitolo di storia che oggi a sinistra vengono ignorati, quasi che a un secolo di distanza dalla scissione di Livorno la storia del Pci si possa risolvere in un album di figurine.
C’è un altro pezzo di storia comunista italiana, di cui la sinistra rivoluzionaria di Reggio Emilia fu più o meno consapevolmente levatrice, che riguarda genesi e sviluppo delle Brigate rosse.
Da anni sostengo che occorra un’opera definitiva di esumazione critica riguardo gli anni Settanta. Nascondere la polvere sotto il tappeto non serve. Mistificare la storia offende le nostre coscienze, comprese quelle di chi in quegli anni si trovò dalla parte sbagliata. Negare, ammiccare, sviare evidenzia il fastidio con cui si affrontano i passaggi cruciali della storia. Le Brigate rosse vennero condannate dal Pci quando arrivarono a Moro e a Guido Rossa, ma prima, e certamente a Reggio, furono coperte e sostenute da una vasta rete di protezione logistica, pur agendo in clandestinità.
Si cerca di far passare il paradosso storico in base al quale il Pci italiano fu essenzialmente una forza riformista, almeno da Togliatti in poi. Ciò non solo è inaccettabile, ma persino offensivo verso chi, da autentiche posizioni riformiste, venne dapprima osteggiato dagli ex compagni e quindi ammazzato in esilio dai fascisti (i fratelli Rosselli). I socialisti riformisti avevano ragione nel ‘21, nel ‘56, nell’89, ma ai superstiti di quel tempo non resta che la damnatio memoriae. Spesso chi ha torto non ti perdona di avere ragione.
CENTO ANNI DI PCI/ I “socialtraditori”: a Livorno aveva ragione Turati
Pubblicazione: 23.01.2021 Ultimo aggiornamento: 11:17 – Gianluigi Da Rold
Ricorre il centenario del Pci, fondato a Livorno nel 1921. Filippo Turati, socialista, rivolse a chi se ne andava una profezia che la storia ha confermato
Bertolini, ultimo segretario del PCI a Reggio Emilia, dice che il PCI non esiste più!
La scomunica (mai ritirata) verso l’ideologia comunista, della SANTA ROMANA CHIESA, UNA, SANTA, CATTOLICA E APOSTOLICA , ha avuto quindi il suo benefico effetto!
Cioe’, come ci ha sempre ricordato il Cardinal Biffi: noi cristiani siamo i «più che vincitori»
Cristo ha vinto la morte! Cosa possiamo temere?
NEMMENO IL NICHILISMO PREVARRA’.
Un ringraziamento particolare a SAN GIOVANNI PAOLO SECONDO