Centoventiduesima lettera alla comunità al tempo del coronavirus e della guerra
Ci stiamo avvicinando alle elezioni politiche del nostro Paese. Proprio in questa domenica, san Paolo ci suggerisce la cosa più importante da fare: “Raccomando, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio” (1Tim 2,1-2).
Anche Papa Francesco e i vescovi europei hanno richiesto di pregare per la pace. Preghiera e pace, preghiera e amore sociale sono in stretto rapporto. La guerra, infatti, è conseguenza dell’idolatria, per la quale l’uomo pensa a se stesso come padrone del creato e della storia, invece di esserne custode e amministratore.
In più, se l’amore non deve limitarsi alla dimensione privata, ma vuole avere una valenza pubblica, sociale, “politica”, allora è sempre più vero che non può essere solo un sentimento. L’amore vero è azione, talvolta fatica; spesso ci chiede di andare contro il sentimento.
Dice Gesù: “Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, pregate per coloro che vi trattano male” (Lc 6,27s.). Il sentimento è volubile e passeggero, se non viene sostenuto da un impegno perseverante. Molti si commuovono di fronte ai bambini che muoiono in mare, nelle rotte della disperazione, ma pochi si impegnano in una riflessione serena e concreta sul difficile tema dell’immigrazione. L’amore vero si misura dal sacrificio e il sacrificio trova le sue motivazioni e il suo sostegno nella fede e nella preghiera. Come Abramo, chi ama è colui che “spem contra spem speravit” (Rm 4,18), colui che spera contro ogni speranza, perché si affida al giudizio di Dio.
Queste considerazioni valgono in particolare per il denaro, per la ricchezza. In questa domenica la Chiesa legge una parabola di Gesù alquanto imbarazzante, perché propone come esempio un amministratore disonesto (Lc 16,10-13). In essa vengono fatte alcune affermazioni che possono avere un’enorme importanza politica.
Anzitutto, la ricchezza è disonesta; serve però per farsi degli amici. Tutto sommato, è cosa di poco conto e certamente è “altrui”, cioè appartiene ad altri e non ne siamo padroni.
Alcune di queste affermazioni si ritrovano anche nella sapienza antica, soprattutto nei filosofi stoici. L’originalità di Gesù sta nella sua visione di un Dio che è Padre, che quindi è signore e giudice della storia e ha un particolare affetto per i figli più deboli, siano essi peccatori o poveri, così che considera come fatto a lui ogni gesto di bontà o, al contrario, di arroganza e violenza.
La ricchezza è “disonesta”, perché spesso la sua origine onesta non lo è; inoltre essa costringe a entrare in una logica alla quale è difficile resistere senza cedere a compromessi con gli idoli di questo mondo. Può servire, però, a farsi degli amici, non però con le bustarelle, ma aprendo un conto corrente presso la banca del cielo (“Accumulate tesori in cielo, dove né tarma né ruggine consumano e dove ladri non scassinano e non rubano”, Mt 6.20). Gli amici sono i poveri, la cui intercessione sarà importante quando saremo giudicati: “Tutto quello che avete fatto a uno di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”, dirà il Giudice (Mt 25,40).
Ma la ricchezza è anche “cosa di poco conto”. L’affermazione sembra ardita, viste, per esempio, le preoccupazioni di tante famiglie per le bollette. Eppure “tenetevi lontani da ogni cupidigia, perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da quello che egli possiede”, dice Gesù (Lc 12,15). In altre parole, Gesù non sconsiglia certo l’impegno per provvedere alle necessità proprie e della famiglia, ma pone due principi, che procedono (lo diciamo ancora una volta) dalla sua visione di Dio come Padre.
Anzitutto, “non preoccupatevi dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” (Mt 6,31-33). In particolare fa parte dell’atteggiamento “giusto” davanti a Dio il considerare le ricchezze come “cosa di proprietà altrui”: noi ne siamo solo amministratori, e ne renderemo conto al Padrone.
In più, se sono affidate a noi, l’amministrazione dev’essere in favore dei suoi prediletti, i piccoli e i poveri. Le ricchezze sono anche quelle morali, come l’intelligenza e la cultura; ma è meglio essere concreti e cominciare proprio dal denaro, dalla casa, dal lavoro. La ricompensa è data già adesso, quando, nonostante i nostri limiti, il Padrone ci riconosce come “servi fedeli”.
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Amara e splendida analisi che dovrebbe arrivare alle alte sfere!
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