Anche se forse non lo volevamo o non ce ne siamo accorti, la pandemia ha cambiato qualcosa in ciascuno di noi: ha cambiato lo sguardo, con il quale guardiamo il mondo, gli altri e noi stessi. Viene in mente una frase di Gesù: “La lampada del corpo è l’occhio; perciò, se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso; ma se il tuo occhio è cattivo, tutto il tuo corpo sarà tenebroso” (Mt 6,22s.).
Forse, molti desiderano che tutto ritorni come prima, ma questo non è possibile, se non a prezzo di oscurare l’occhio, di chiuderlo deliberatamente di fronte alla sofferenza, alla fragilità, al cambiamento dei valori. Dobbiamo temere questa violenza su noi stessi, che ci rende oscuri, pesanti, antipatici.
Lo sguardo che rende luminosi porta, nel Vangelo, il nome di “compassione”. Più precisamente, è un moto interiore di commozione, che spinge ad agire, in particolare a soccorrere la debolezza dell’uomo.
Nel Vangelo, esso viene attribuito a Gesù, per esempio, quando le folle lo seguono, affamate della sua parola di grazia e di consolazione, più ancora che del pane materiale, anche se pure a quello Gesù provvederà (Mc 6,34). E’ lo sguardo del buon Samaritano, che si commuove di fronte all’uomo ferito dai ladroni, anche se è uno sconosciuto; è lo sguardo col quale il padre si rivolge al figlio che torna, lacero e miserabile, dopo la sua fuga da casa (Lc 10,33; 15,20).
E’ importante notare che questo sguardo non dipende dai meriti o dalle attrattive di colui al quale esso viene rivolto. Certo non è il caso del figlio discolo; le folle sono talvolta opprimenti e il ferito dai briganti è uno sconosciuto. Ma lo sguardo viene da dentro e si rivolge alla miseria e al dolore dell’uomo.
In questi mesi, ho incontrato diverse persone, nelle quali questo sguardo ha mosso ad azioni concrete di solidarietà, magari rovesciando pregiudizi e chiusure, spesso senza chiedere nulla in cambio. Le considero luci, che hanno consolato il mio cammino.
Tuttavia, credo che sia ancora molto diffusa l’idea, che la compassione sia debolezza e che impedirebbe le decisioni necessarie, ancorchè dolorose. Si racconta che, durante la Grande Guerra, il comandante dell’esercito francese, il generale Joffre, andò a visitare i feriti in un ospedale. All’uscita, disse: “Non portatemi più a vedere queste cose, altrimenti non riuscirei a dare l’ordine di attaccare”. Forse, invece, si sarebbero dovuti portare in visita tutti i generali e i governanti dell’epoca, se questo era il prezzo perché la guerra finisse prima. E anche oggi non si può sostenere che l’economia e la politica siano un’altra cosa: ricuperare i cadaveri degli annegati non può essere il compito degli addetti; ascoltare le storie di chi ha perso il lavoro non compete solo agli assistenti sociali; consolare chi soffre per la perdita di una persona cara non riguarda solo gli psicologi.
La durezza del cuore, l’incapacità di sentire il dolore dell’altro, non può essere considerata una virtù: è semplicemente accecamento, tenebra che scende in noi e attorno a noi. Dire che la politica e l’economia sono altra cosa rispetto alle scelte private di solidarietà, significa aprire la porta al disprezzo per l’uomo.
L’esempio di Gesù ci aiuta a superare il concetto di merito. Esso è un concetto “castale”, nemico del fondamento di ogni comunità, l’uguale dignità di ogni essere umano. Ma riconoscere l’uguaglianza non basta, bisogna crearla, promuoverla. Questo può avvenire soltanto se prendiamo a guida la frase di Gesù, la cosiddetta “regola d’oro”: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro” (Mt 7,12). All’idea di merito, va sostituita la riconoscenza per quello che abbiamo ricevuto. La felicità non è un diritto, da rivendicare sgomitando: è un frutto da cogliere insieme.
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Amara e splendida analisi che dovrebbe arrivare alle alte sfere!
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