“La luce splende nelle tenebre”: così riassume il Natale il Vangelo di Giovanni (1,5). Comprendiamo il Natale solo se riconosciamo onestamente la tenebra che è in noi. Infatti, ci siamo abituati a pensare che le tenebre vengano da fuori e abbiamo pronta la lista dei colpevoli. Il virus ha dato l’ultimo colpo a una situazione non più sostenibile. Sappiamo che nulla sarà come prima, ma non sappiamo come sarà. Sono caduti i miti che ci illudevano, per esempio quello della globalizzazione come apertura a grandi prospettive di progresso. La globalizzazione esiste, ma è anzitutto quella della sofferenza. Cresce il grande senso di colpa di fronte alle migrazioni e ai morti di questi viaggi della speranza: siamo contro i muri di filo spinato, ma senza saper proporre alternative, forse perché intuiamo che ci sarebbe un prezzo, il mettere in discussione noi stessi.
“La luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno vinta”. Penso a don Pasquino Borghi, che celebrava a Tapignola il suo ultimo Natale, un mese prima del suo martirio. C’era freddo, in quella piccola chiesa isolata, e le tenebre della guerra e dell’odio avvolgevano il mondo e corrompevano i cuori. Eppure, bastavano le statuine del presepio e i canti natalizi per far germinare la speranza. La forza del male si infrangeva davanti a quel Bimbo inerme, immagine di un amore assoluto, portatore del messaggio che Dio si è fatto povero per i poveri, per consolare gli afflitti, per offrire il perdono a tutti. Immagino quella Messa di Mezzanotte, che egli celebrava senza sapere che tra pochi giorni le parole del Cristo sarebbero diventate le sue: “Questo è il mio sangue, versato per voi, per il perdono …”.
Il Natale ci ricorda che le tenebre sono state vinte, che è sempre possibile ricominciare, che la speranza non è un’illusione, che “dopo un raccolto ne viene un altro”, come disse Papà Cervi, anche lui testimone, dolente e coraggioso, di quegli anni.
“Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo”. La cosa peggiore che potremmo fare, sarebbe quella di cedere al pessimismo. Non possiamo essere pessimisti sull’uomo, nonostante le sue miserie e le sue colpe, perché non possiamo essere pessimisti su Dio.
Io chiedo per me tre doni. Anzitutto, una grande fiducia: cedere allo scoramento, sarebbe la più grave bestemmia, sarebbe come ripetere le parole dello “stolto”, secondo il Salmo 14: “Dio non c’è”, nel senso che non può fare nulla, non può cambiare il corso degli eventi: “Voi volete umiliare le speranze del povero, ma il Signore è il suo rifugio”.
Il secondo dono è la pazienza, anzi, l’ostinazione: ostinazione nel cercare il bene che è nell’uomo, ostinazione nel compiere il mio dovere, ostinazione nel costruire comunità tra le persone.
Il terzo dono è uno sguardo puro, che sappia vedere il male con sincerità ma senza scoraggiarsi e, soprattutto, che sappia vedere il bene e renderne gloria a Dio.
Benedetti gli sposi, che osano promettersi un amore per sempre.
Benedetti i genitori, che accolgono il miracolo della vita.
Benedetti i medici, gli infermieri, i sanitari, che rendono saldo il loro cuore e non cedono allo sconforto.
Benedette le cassiere, i postini, gli autisti, i riders, che rendono possibile la trama della vita quotidiana.
Benedetti i parlamentari, che cercano il bene comune e ascoltano le voci flebili di coloro che non li voteranno.
Benedette le suore, che presentano al loro Signore le preghiere degli umili e le preghiere di coloro che non pregano.
Benedetti i poveri, perché accettano il nostro aiuto.
Benedetti i giovani, che nutrono aspirazioni e ideali, e non permettono al cinismo di spegnerli.
Benedetto sei tu, fratello che leggi queste parole, perché anche in te c’è la luce, che tu trasmetterai agli altri.
Buon Natale a tutti voi.
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Amara e splendida analisi che dovrebbe arrivare alle alte sfere!
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