“Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore”

Quinta Domenica di Pasqua, Anno B – 29 aprile 2018 

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 15,1-8)
 
 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato.
Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano.
Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».
 
Raramente un’immagine è stata così feconda di interpretazioni e suggestioni. Nello sfondo, però, possiamo vedere il concetto che Israele ha consegnato all’umanità: l’uomo esiste nell’alleanza, all’interno di un patto. Esso è donato. C’è una “buona volontà” originaria, quella del Padre, contadino sapiente. Si tratta di una relazione vitale, trasformante, la partecipazione alla vita del Figlio, al dono dello Spirito Santo. L’alleanza diviene comunione, quindi gioia, fecondità.
 
“Senza di me non potete fare nulla”. Il fare è la conseguenza di una nuova realtà, dell’appartenenza all’albero della vita. Noi, che siamo così preoccupati del risultato, del successo, dovremmo piuttosto pensare a custodire questa relazione: “Rimanete in me!”. I frutti verranno, sorprendentemente ricchi e abbondanti. Chi ha incontrato un uomo di Dio, ha avvertito una forza di pace e di consolazione, un irraggiamento di quel fuoco di carità, presente in chi rimane unito alla Vite. Dovremmo pensare a migliorare noi stessi, a vivere questa dimensione della fede amante: troppo spesso, la nostra predicazione è arida, intellettualistica o moralistica. Dovrebbe invece parlare il cuore, che custodisce la presenza del Risorto.
 
Anche la sofferenza prende un significato nuovo. Essa è dolorosa, come un taglio: ma questo taglio è per la vita, perché il frutto si moltiplichi. La sofferenza, accettata con pazienza e con fede, è la grande scala che eleva l’uomo a Dio. La croce è il luogo della comunione, dove il Creatore e la creatura si avvinghiano in un abbraccio che non può essere sciolto.
Laddove c’è questo amore, la preghiera è sicuramente efficace. Essa ottiene e comprende: comprende quello che ottiene e la comprensione dilata la richiesta secondo le intenzioni di Dio.
 
Nei versetti seguenti (9-17), si specifica il frutto: esso è l’amore, il concreto dare la vita per i fratelli. L’alleanza con Dio include sempre gli altri destinatari del disegno divino: ogni uomo è degno del mio amore. Ma l’amore non è un precetto o un principio etico: è la necessità interna dell’alleanza. Tutte le volte che mi separo da un altro tralcio, rendo precaria e triste la mia relazione con la Vite: divento un ramo secco.
 
Certo, “rimanere in Gesù” ha un prezzo. Non è il rimanere statico di un sasso, ma il frutto di uno sforzo, che contrasta la tendenza dell’Adamo che è in noi a separarsi, a mangiare il frutto della superbia di chi pretende di essere “come Dio”, il dio di se stesso. Dobbiamo essere certi che non esiste un rapporto che non chieda una libera autolimitazione delle due parti. All’uomo viene chiesta l’autolimitazione della fede, cioè dell’ascolto fiducioso della parola del Padre; l’autolimitazione di Dio è la Croce, la consegna di sé all’uomo peccatore, perché anche l’ultimo uomo sappia di essere incluso in questa universale volontà di amore.