Centottantatreesima lettera alla comunità al tempo della conversione
Nella sagrestia della chiesa di san Pellegrino è collocato il cappotto che don Pasquino Borghi indossava il 30 gennaio 1944. Sono trascorsi ottant’anni da quell’alba d’inverno, dai giorni tristi e angosciosi di una guerra che sembrò travolgere ogni sentimento di pietà. Davanti a quell’indumento, che porta i fori dei proiettili e le macchie del sangue, il Vescovo Camisasca pronunziò le parole che meglio descrivono il senso del sacrificio di questo giovane prete: “Il sangue è diventato luce”.
Don Pasquino era parroco a Tapignola, un gruppo di case della val d’Asta, poco distante da Villaminozzo. Nella sua canonica, egli ospitava dei militari alleati, fuggiti dalla prigionia, in attesa di passare le linee. Nello stesso tempo, egli era in contatto attivo con le formazioni partigiane della zona.
Il 10 gennaio del 1944, egli scese a Reggio e incontrò in san Pellegrino don Angelo Cocconcelli e Giuseppe Dossetti. I suoi interlocutori gli dissero che egli correva un rischio troppo grande, che i fascisti ormai sospettavano di lui, e che quindi era necessario che mandasse via i suoi ospiti. Don Angelo ha raccontato l’episodio nella commemorazione di don Pasquino, che egli tenne nell’ultimo anno della sua vita, il 30 gennaio 1999: “Don Pasquino ripeteva sempre: “Ma dove li mando con trenta centimetri di neve gelata, se nessuno li vuole!”. “Ma è un pericolo mortale!”. E lui: “Ma si può anche dare la vita per la patria libera”.”. Il 21 gennaio egli venne arrestato, condotto a Reggio e fucilato pochi giorni dopo.
Ci rendiamo conto del dovere, ma anche della difficoltà di fare memoria. Si tratta di memorie ancora molto presenti e molto dolorose. L’esperienza tragica di una guerra civile ha sparso lutti, da una parte e dall’altra, e, anche se il giudizio storico e morale sulla guerra, sul fascismo e sulla resistenza è indiscutibile, le vicende personali di tante famiglie sono ancora fonte di grande dolore. D’altra parte, non si può approvare l’idea di aspettare che scompaiano le due generazioni, quella degli uccisi e quella dei loro figli, confidando in un progressivo oblio. Non sarebbe giusto, prima di tutto verso i morti stessi.
Anzitutto, dobbiamo immaginare la situazione di un giovane prete, tagliato fuori, come tutti i suoi coetanei, da fonti di informazione che non fossero quelle del regime fascista: egli maturò la convinzione che fosse necessario schierarsi, e questo per ragioni evangeliche. Anzitutto, come reazione a una visione dell’uomo razzista e violenta, nella ricerca di una società giusta e pacifica. In questa lotta, non era possibile evitare l’uso della violenza. Il problema si pose per molti preti e laici e divenne sempre più angoscioso, man mano che alle azioni militari si accompagnavano atti di crudeltà non giustificati né giustificabili. Lo sforzo dei cattolici nella resistenza fu anche quello di moderare questa violenza, di impedire vendette e crudeltà: venne così maturando la volontà di edificare un’Italia che fosse la casa di tutti, vincitori e vinti, giusta, solidale e pacifica. Il risultato fu l’impegno dei cattolici nella stesura della Carta Costituzionale, nella quale traspaiono e si realizzano questi ideali.
Sbaglierebbe quindi chi vedesse in don Pasquino un “curato di campagna”, un po’ ingenuo e trascinato da eventi più grandi di lui. La sua biografia smentisce questa lettura: essa ci parla dei suoi studi nel seminario di Marola, del suo ingresso nei missionari Comboniani e del suo ministero in Sudan, della sua permanenza nella Certosa di Lucca. Dietro la sua scelta ci fu molta preghiera e molta riflessione.
L’attualità di questa memoria si manifesta nel tempo che stiamo vivendo. Siamo coinvolti anche noi nella guerra alle porte di casa. Si ripropongono gli interrogativi di sempre: quanto sia legittima la difesa, quali i suoi limiti, e soprattutto quale sia la nostra responsabilità per costruire la pace. Il confronto con persone come don Pasquino può davvero suscitare il desiderio di non sottrarci alla responsabilità di vivere il nostro tempo e le sue difficoltà; ma, soprattutto, ci fornisce il criterio con il quale orientarci. Questo criterio non può essere altro che la carità. Il dialogo tra don Pasquino e don Angelo nella canonica di san Pellegrino ha come oggetto un gesto concreto: non si può cacciare nella neve delle persone che nessuno vuole. Che la carità guidi anche noi sempre.
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Amara e splendida analisi che dovrebbe arrivare alle alte sfere!
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