Centocinquantaseiesima lettera alla comunità al tempo del coronavirus, della guerra, del terremoto e dell’alluvione.
Il due giugno abbiamo celebrato i settantasette anni della Repubblica e abbiamo commemorato ancora una volta la nostra Costituzione, frutto e coronamento della Resistenza. Tre parole di quello straordinario documento mi rimangono nella memoria. Anzitutto, l’affermazione ripetuta più volte che “la Repubblica riconosce …”: ci sono cioè delle realtà originarie, antecedenti alle disposizioni di legge e all’ordinamento dello Stato. Questo valore primario viene attribuito anzitutto alla persona umana, che però, nella concreta vita sociale, diventa “cittadino”, membro di una comunità, nei confronti della quale egli è responsabile. In altre parole, c’è un legame strettissimo tra persona e comunità: la persona si realizza pienamente nella comunità e la comunità richiede e promuove il bene della persona.
Oggi, dopo due giorni, la Chiesa celebra la festa della Santissima Trinità, Padre e Figlio e Spirito Santo, tre persone e un solo Dio. Paragonata alle grandi celebrazioni, come la Pasqua e il Natale, la festa della Trinità, con la sua apparenza di algebra teologica, può lasciare piuttosto freddi. Eppure, è proprio su quel fondamento che si colloca la nostra visione dell’uomo. Infatti, un Dio uno, ma solitario, si colloca al vertice di una gerarchia, nella quale gli uomini non sono uguali, ma diversi per casta, per convinzioni religiose, per qualità morali. Il Dio di Gesù. invece, è anzitutto “Padre”: l’unità si genera continuamente per un rapporto di amore, ed è una unità inclusiva: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna”, dice Gesù a Nicodemo (Gv 3,16). Il Dio di Gesù vuole che l’uomo, ogni uomo, entri in questa eterna comunione che è la sua vita.
Dunque, tutti gli uomini hanno uguale dignità, perché chiamati a un unico destino. Nello stesso tempo, tutti sono responsabili gli uni verso gli altri, chiamati a essere costruttori di comunione; e questa comunione è fonte di gioia. Dice infatti Gesù: “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15,11).
Dovremmo pensare di più al rapporto che esiste tra persona e comunità, come ci sollecita la nostra Carta costituzionale. Non è cosa buona la chiusura nel privato, visto come isola di sicurezza in un mondo ostile o, almeno, indifferente. Mi colpisce la privatizzazione di alcuni momenti, che sono fra i più sacri nella vita di un essere umano. Per esempio, i funerali. La mia potrà sembrare una nostalgia infantile, ma rimpiango i funerali con la banda e magari anche le bandiere, come segno di partecipazione e di ringraziamento per quello che il defunto ha rappresentato nella comunità. Questo vale soprattutto quando muore un anziano: egli ha il diritto che gli venga riconosciuto il valore della sua storia.
Anche l’amore non dovrebbe essere considerato privata proprietà. Temo che il diffondersi delle convivenze, come sostituzione del matrimonio, sia un altro indizio di individualismo. Dare valore pubblico all’amore non è una formalità: piuttosto, è riconoscere che, senza l’aiuto di due comunità, quella civile e quella religiosa, gli sposi non sarebbero potuti arrivare a questo momento di grande gioia; come, del resto, essi continueranno ad avere bisogno di aiuto e, nello stesso tempo, le due comunità avranno il diritto di aspettarsi il contributo della nuova famiglia al bene comune.
Persona e comunità crescono insieme. Può sembrare un compito troppo difficile, ma dobbiamo essere, con ostinazione, costruttori di comunità. Ogni episodio, anche minore, incrina il guscio della solitudine e apre la porta a quella che Charles Peguy chiama “la sorella piccola”: la speranza.
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Amara e splendida analisi che dovrebbe arrivare alle alte sfere!
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