Centosettantottesima lettera alla comunità al tempo della conversione
Ancora una volta, è Natale. E’ difficile parlarne in modo nuovo, dire parole che non siano già state dette. E’ più rassicurante trasformarlo in una Festa d’Inverno e Babbo Natale fa la sua comparsa davanti ai negozi e nelle piazze, ma riprende presto la sua slitta e le sue renne per tornare in un improbabile settentrione.
Babbo Natale può stare davanti ai supermercati; a nessuno verrebbe in mente di metterci una donna e un bambino. O forse li troviamo, ma non portano regali, anzi, chiedono il dono di una moneta e forse di una parola buona.
Sono passati esattamente ottocento anni da quando san Francesco inventò il presepio, a Greccio. Lo volle per sé, per innamorarsi ancora di più di quella povertà e di quella “condiscendenza” di Dio verso l’uomo: un Dio che “discende”, come nel canto natalizio che a me piace di più, composto fa un altro santo, Alfonso Maria de’ Liguori, che con grazia napoletana dice: “Tu scendi dalle stelle – o Re del Cielo”. Anche oggi, incontriamo presepi viventi, che portano negli spazi aperti delle città il messaggio che affascina i bambini con la sua tenerezza, e chiede una sosta alla nostra fretta.
Il Presepio vorrebbe trasmetterci un messaggio, nello stesso tempo antico e nuovo. Ma la ripetizione non stanca? E dove troviamo la novità, in una storia che conosciamo così bene?
E’ vero: il messaggio del Natale è così semplice, che non vi si può aggiungere nulla, che già non si sappia. Tuttavia, la ripetizione è benedetta, come avviene nel linguaggio dell’amore. Le parole, che due innamorati si scambiano, sono poche e sempre le stesse, ma non stancano, anzi, sono attese con desiderio. L’avanzare del tempo della vita non le rende inattuali, anzi dà loro la concretezza di una conferma; la memoria rende più consapevole quello che già tante volte abbiamo ascoltato e detto, e che oggi viene ripetuto con gratitudine.
Il Natale è sempre lo stesso, perché l’uomo è sempre lo stesso, con le sue miserie, la violenza, l’egoismo e la guerra. A Betlemme, quest’anno, mancherà la festa. Tutte le Chiese cristiane hanno deciso di non esporre luminarie, di non riempire le vie con cortei e musica. Ma il Presepio verrà costruito, anche in mezzo alle macerie, perché una parola di amore venga pronunziata anche là dove sembra illusione e finzione assurda. Il Natale è il “sì”, pronunziato da Dio in una storia che vorrebbe espellerlo; ma ogni anno Egli torna a bussare all’ultima porta, a entrare anche là dove la porta non c’è più, perché la casa è stata distrutta, perché tutto il legno è stato bruciato per scaldarsi.
La ripetizione non è però solo conferma e conforto; è anche esortazione a ricominciare sempre di nuovo. Un nuovo inizio non solo sempre possibile, ma è necessario. Nella vita spirituale, non ci si può fermare. Se pensiamo di vivere la vita come la realizzazione di un progetto o di un ideale, dopo un po’, ci si stanca e la mediocrità riprende a esercitare il suo fascino anche sulle anime più generose. Il Natale è invece l’occasione per ascoltare il “sì” che Dio dice all’uomo: un “sì” puro, gratuito, definitivo, che non conosce condizioni, che non esige che ne siamo degni; anzi, questo “sì” viene pronunziato nelle vite spezzate, ma anche nell’animo di chi ha compiuto orribili delitti. Vorrei però essere ascoltato da chi è mio fratello nel rischio di un’infedeltà più sottile,che è come una pioggia di cenere: sottile, ma soffocante. Caro fratello, la via della gioia passa attraverso l’ascolto, come quello di Maria, che risponde all’angelo: “Eccomi, sono la serva del Signore; si faccia di me secondo la tua parola”.
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Amara e splendida analisi che dovrebbe arrivare alle alte sfere!
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