Centosettantacinquesima lettera alla comunità al tempo della conversione.
Un signore, che deve partire per un viaggio, affida i suoi possedimenti ai suoi impiegati. Li conosce bene e non chiede un impegno esagerato, superiore alle loro forze. Infatti, a uno affida cinque talenti, a un altro due e al terzo uno. Il talento era pari a trentacinque chili di metallo prezioso, oro o argento; si tratta di una bella somma. L’impegno dei tre è diverso: i primi, raddoppiano il capitale, mentre il terzo trascura la fiducia che il padrone ha avuto verso di lui: mette al sicuro il denaro, poi si dedica ai propri interessi e affari. La parabola, che Gesù racconta, si conclude con il ritorno del padrone. I due servi fedeli vengono ricompensati largamente: “Siete stati fedeli nel poco”, gli dice. In realtà, abbiamo visto che l’affidamento non era piccolo; ma c’è una gioia più grande, la gioia della festa nella casa del padrone. Il terzo servo, che, con una certa sfrontatezza, sembra dire; “Qui c’è il tuo denaro, cosa vuoi di più?”, riceve una bella strigliata: “Servo malvagio e pigro!”, e viene cacciato fuori.
In realtà, più che di pigrizia, si tratta di mancanza di un amore, che, concretamente, si esprima nella cura. Tra padrone e servitori c’è affetto. Nell’Antico Testamento, questa intimità affettuosa veniva rappresentata con l’immagine del pastore buono e tenero, immagine che Gesù applicherà a se stesso. Addirittura, il Signore è come una madre, che abbraccia e bacia il suo bimbo, mentre gli insegna a camminare (Osea 11). Paolo, l’apostolo, lo ripeterà di sé: “Siamo stati amorevoli in mezzo a voi, come una madre ha cura dei propri figli”(1Tess 2,7). Il Buon Samaritano “si intenerisce” davanti all’uomo seviziato dai briganti. Non si limita al pronto soccorso, ma lo affida all’albergatore con queste parole:”Abbi cura di lui!”(Lc 10,35).
Mi è caro ripetere quello che vi ho scritto in queste ultime lettere. I grandi mali, come la guerra, possono essere sanati solo sanando il nostro cuore, mutando la nostra intenzione, lo sguardo, col quale ci rivolgiamo agli altri uomini, anche ai nemici, anche ai malvagi.
I servitori buoni sono coscienti di non essere padroni di ciò che amministrano, di dover quindi rispondere a chi ha affidato loro qualcosa di prezioso. Questo vale per tutti: per i genitori, per gli educatori, per i medici, ma anche per chi ha grandi responsabilità economiche e politiche. Siamo tutti responsabili, cioè dovremo rispondere al Padrone delle nostre azioni. Mi chiedo come sia possibile che nelle guerre non ci si commuova, di fonte alla sofferenza, o la si consideri un “danno collaterale”. Ma si arriva a questo, se non ci si esercita, anche da bambini, ad avere uno sguardo buono verso l’essere umano, anche verso il malvagio e il nemico. Lo scopo dell’esortazione alla preghiera, che riceviamo dal Papa, è proprio questo.
Ricorre oggi la giornata mondiale dei poveri, voluta da Papa Francesco. Anche qui, è una questione di sguardo. Se amiamo il nostro denaro e i nostri affari più degli uomini e delle donne che hanno bisogno, ci saranno sempre guerre, per difendere le nostre proprietà. Se, invece, saremo convinti di essere degli amministratori di beni non nostri, che comunque dovremo lasciare ad altri, allora potremo dire: “Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore (Salmo 90). La sapienza non è ingenuità. Scrive santa Teresina: «Ora capisco che la carità perfetta consiste nel sopportare i difetti altrui, non stupirsi assolutamente delle loro debolezze, … ma soprattutto ho capito che la carità non deve restare chiusa in fondo al cuore: “Nessuno, ha detto Gesù, accende una fiaccola per metterla sotto il moggio ma la si mette sul candeliere, affinché illumini tutti quelli che sono nella casa”. Mi sembra che questa fiaccola rappresenti la carità che deve illuminare, rallegrare non solo coloro che sono a me più cari, ma tutti coloro che sono nella casa, senza eccettuare nessuno».
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Amara e splendida analisi che dovrebbe arrivare alle alte sfere!
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