Ventesima lettera alla comunità al tempo del Coronavirus
È possibile la gioia al tempo del Coronavirus? Sembrerebbe di no: magari pensiamo siano necessarie virtù come la perseveranza, la pazienza, la generosità. La gioia è rimandata a tempi più felici.
Invece nel vangelo di questa domenica Gesù propone ai suoi discepoli la gioia, pur indicandone il prezzo: “Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo”.
Si tratta dunque di una gioia che ha un prezzo, vendere tutto. La pretesa di Gesù è che ne valga la pena: c’è una tale sproporzione tra ciò a cui si rinuncia e il valore del tesoro che la rinuncia non pesa, anche se è completa, “totalitaria”.
Esiste dunque un tesoro che valga questo prezzo? Non è possibile conservare una piccola riserva, un’assicurazione, un modesto capitale che sia di garanzia, se l’investimento si rivelasse non del tutto felice?
È evidente che tutto dipende dalla natura e dall’entità del tesoro. Che cosa ci propone Gesù? Il Regno di Dio, certamente: ma di che cosa si tratta?
Potremmo laicamente parlare di felicità. Ma dopo le promesse delle grandi ideologie e la caduta delle illusioni, dopo le orribili stragi delle guerre, di fronte al disprezzo per l’uomo, viene in mente la poesia di Arturo Graf, un poeta dell’Ottocento: “Felicità! Malaccorta/ melanconica fola!/ Una così lunga parola/ per una cosa sì corta”.
La crisi del coronavirus ci conferma la fragilità delle cose umane: “Vanità delle vanità: tutto è vanità”, come dice il libro dell’Ecclesiaste (Qo 1,2), anche se ammiriamo lo slancio generoso di chi si adopera per il bene degli uomini, osando chiamarli fratelli.
Gesù è dunque un dolce visionario, che ignora “di che lagrime grondi e di che sangue” la storia umana? Di una cosa, però, non lo si può accusare: che non abbia condiviso il dolore dell’uomo. Possiamo chiedergli quale sia il suo tesoro, per il quale non ha esitato a dare la sua vita.
Ci aiuta l’esperienza dei santi. Talvolta essa è travolgente, come nel caso di Pascal. Dopo la sua morte venne trovato – cucito nel suo abito – il “memoriale”, nel quale descriveva la sua esperienza spirituale:
“Dalle dieci e mezzo circa di sera sino a circa mezzanotte e mezzo, Fuoco.
Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, non dei filosofi e dei sapienti.
Certezza, Certezza. Sentimento. Gioia. Pace. Dio di Gesú Cristo. Deum meum et Deum vestrum.
“Il tuo Dio sarà il mio Dio”. Oblio del mondo e di tutto, fuorché di Dio.
Lo si trova soltanto per le vie insegnate dal Vangelo.
Grandezza dell’anima umana.
“Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto”.
Altre volte l’esperienza è molto più pacata, ma identica su un punto, quello che abbiamo visto nel caso di Maria Maddalena: Gesù pronunzia il nome di lei, e in quell’attimo tutto cambia. Lei lo riconosce, ed è certezza di essere amata e che l’amore ha vinto la morte e che nulla mai più la potrà separare dall’amato.
San Paolo esprime così la stessa esperienza: “Sono persuaso che né morte né vita, né presente né avvenire, né alcuna altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rom 8,38s.). Di fronte a tale certezza, persino la morte diventa incontro, diventa la misura dell’amore.
La vita perde certamente la stabilità, dovuta ai nostri programmi. Ma acquista una stabilità diversa, tanto più certa quanto meno dipende da noi, ma da quell’Assoluto amore, che è entrato nella nostra storia.
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Amara e splendida analisi che dovrebbe arrivare alle alte sfere!
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