Gesù è arrivato a Gerusalemme e tutti si aspettano l’ingresso trionfale del Re Messia. Egli deve preparare i discepoli allo scandalo della sua passione e morte, ma anche dare le istruzioni necessarie per vivere il tempo intermedio, in attesa del suo ritorno. Nel vangelo di Marco, queste istruzioni si riassumono in una parola: “Vegliate!”, anzi, letteralmente, “cacciate il sonno”. C’è una disciplina da esercitare, uno sforzo da compiere, per evitare l’”appesantimento del cuore”, come lo chiama il testo parallelo di Luca (Lc 22,34). Il sonno è una difesa, lo sappiamo bene: possiamo fuggire da noi stessi con lo stordimento dell’ingordigia di possesso e di piaceri, ma anche con la tristezza affannata di chi rincorre di continuo il presente. Vegliare vuol dire dunque conservare l’attesa, ma anche vivere la disciplina del dovere quotidiano, compiuto con lo spirito dei servi fedeli: operai, non padroni! Il successo dell’impresa compete a lui e il servo fedele ne è certo, anche se il Padrone ritarda.
Mi chiedo, però, che senso possano avere queste parole per chi si ripara dalle bombe nelle trincee d’Ucraina, o per chi vive in mezzo alle macerie o nelle fredde tende di Gaza. Quando è a rischio la vita, quando da un momento all’altro una bomba può mettere fine ai tuoi giorni o una falla può aprirsi nel tuo barcone, come puoi pensare a Dio e credere ancora che sia lui a guidare la storia? Per questo, la guerra è la più atroce bestemmia contro il suo Nome. Sappiamo infatti che il Nome, rivelato a Mosè, è Jahveh, che vuol dire “Io sono”, io sono il Presente. Non sei il Presente, o Signore, ma il grande Assente: o forse siamo noi che non vediamo, che siamo logorati dall’attesa o privati della speranza, di fronte all’enormità dei lutti.
Nel Vangelo, Gesù chiede di riempire la veglia con la preghiera. Lo fa lui stesso, nell’Orto degli Ulivi, mentre i discepoli sono vinti dall’angoscia, nonostante il Maestro abbia chiesto loro di essere sostenuto dalla loro vicinanza: “Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione” (Mc 14,38). La tentazione è quella che Gesù stesso grida dalla croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15,34). Dovremmo togliere alla preghiera l’aura devozionale: essa diviene parte del grande dramma della vita, lo rende parola, lo comunica, prima di tutto a quel’orizzonte della coscienza dell’uomo, che molti chiamano Dio. Israele ha trasmesso alla Chiesa una suprema libertà, nel rivolgersi al suo Dio. Nel libro di Isaia (63,16), si arriva a dire: “Tu, Signore, sei nostro padre, da sempre ti chiami nostro redentore. Perché, Signore, ci lasci vagare lontano dalle tue vie e lasci indurire il nostro cuore, così che non ti tema?” In altre parole, è responsabilità di Dio, se, per l’enormità delle sofferenze, il cuore si è indurito, se ha ceduto al cinismo e alla rassegnazione. Così, la preghiera si conclude con tono accorato: “Se tu squarciassi i cieli e scendessi!”.
Va però detto che la preghiera germoglia e cresce nelle situazioni più paradossali e sostiene la resistenza. Ho letto, nel libro di Raffaele Luise sui suoi viaggi in Ucraina, la descrizione commovente di una Messa celebrata in un rifugio in prima linea e ricevo testimonianze sulla scuola di Gaza: “Il Patriarcato ha due scuole a Gaza, la scuola grande, chiamata Sacra Famiglia, ospita circa 3000 persone che hanno perso le loro case. L’altra scuola che abbiamo è nel complesso della chiesa, dove ospitiamo più di 700 persone”, e tutte queste persone trovano forza nella preghiera. Quanto ai profughi, mi commuove constatare che, tra le povere cose che si portano dietro, c’è la Bibbia, che leggono con costanza, per ricordare a se stessi che Dio non li abbandona.
Penso che il primo modo per restare svegli sia la fedeltà al nostro dovere. Questo non vuol dire rinunciare a pensare in grande, a cercare pace e giustizia, a porsi nobili obiettivi, ma ce ne dà il diritto.
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Amara e splendida analisi che dovrebbe arrivare alle alte sfere!
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