Il primo attentato, sventato dall’Ovra (e mai avvenuto), a Mussolini

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Un attimo prima di compiere un attentato a Mussolini, venne arrestato, il socialista unitario Tito Zaniboni. Erano le 9,30 del 4 novembre 1925. Nella camera n.90 dell’Hotel Dragoni di Roma, con la finestra posta esattamente di fronte a quella di Palazzo Chigi dalla quale di lì a poco si sarebbe affacciato il Duce, venne rinvenuto un fucile di precisione austriaco pronto a fare fuoco. Tutto era stato preparato da tempo e l’occasione finalmente era giunta. Mussolini, infatti, doveva affacciarsi per celebrare l’anniversario della vittoria nella Prima guerra mondiale e salutare i reduci e i camerati convenuti.

Dalla sua postazione Zaniboni non avrebbe certamente mancato il bersaglio e in un solo momento avrebbe vendicato Matteotti e posto fine alla dittatura.
Nella preparazione dell’impresa non fu solo. Si avvalse dell’aiuto dell’amico Carlo Quaglia, lo stesso che aveva prenotato la camera d’albergo e parcheggiato l’automobile per la fuga nei pressi di Piazza San Claudio. Ci furono poi diversi suoi commilitoni, che lo aiutarono a finanziare l’impresa, oltre al generale Luigi Capello, anche lui massone come Zaniboni.

Ma chi era l’agronomo Tito Zaniboni? Personaggio contraddittorio, determinato e un po’ ingenuo, era nato a Monzambano (MN) nel 1883. Dopo essere emigrato per breve tempo negli Usa, fece ritorno in Italia e nel 1906 fu chiamato a prestare servizio militare nell’8° Reggimento Alpini, dal quale venne congedato nel 1908 come sottotenente di complemento.
Presto si iscrisse al Psi, aderendo subito al gruppo riformista. Nel 1914 fu eletto consigliere provinciale di Volta Mantovana. Iscritto alla massoneria di Palazzo Giustiniani, resse la segreteria delle cooperative mantovane dal 1913 al1915.

In più occasioni e con diversi articoli manifestò la sua anima pacifista schierandosi dapprima contro la guerra di Libia e successivamente contro l’entrata in guerra dell’Italia nella Prima guerra mondiale. Richiamato alle armi tuttavia diede il meglio di sé stesso, distinguendosi con atti d’eroismo che gli valsero tre medaglie d’argento e una di bronzo al valor militare. Fu congedato con il grado di tenente colonnello.

Dopo la fine della guerra simpatizzò con l’impresa fiumana di Gabriele d’Annunzio, collaborando anche con Il Popolo d’Italia di Mussolini, senza mai aderire però a quel movimento. Nel 1919 fu eletto consigliere provinciale di Volta Mantovana e sindaco di Monzambano, il suo paese natio.
Nel 1921 venne eletto deputato per il Psi nella circoscrizione di Udine e Belluno. Sempre nel 1921 fu uno dei sottoscrittori del “Patto di pacificazione” tra socialisti e fascisti, che però nel volgere di pochi giorni svanì per venire accantonato per sempre.

Nel 1922 aderì di slancio al Psu, venendo rieletto nel 1924. L’assassinio del suo segretario, Giacomo Matteotti, lo impressionò moltissimo. Deluso dalla condotta dell’opposizione aventiniana e dalla passività del re cui pure si era rivolto, decise d’agire da solo. Pare che, in preda ad un delirio di onnipotenza, abbia addirittura scoperchiato 13 tombe nel cimitero del Verano di Roma alla vana ricerca del corpo di Matteotti.

Quando poi il corpo dell’on Matteotti venne rinvenuto in un campo nei pressi della capitale non ebbe più dubbi. Fu dunque in quella atmosfera di sconforto e d’indignazione anche personale che maturò la decisione di reagire a tanta ingiustizia con un’azione estrema nei confronti di Mussolini, ormai considerato da tutti come il mandante della tragica spedizione punitiva.
Iniziò così a studiare e a organizzare l’attentato scegliendo il luogo e il giorno più opportuno per agire. La sua determinazione e la sua ingenuità finirono però per vanificare il tutto. In realtà non si trattò infatti nemmeno di un fallito attentato, ma di un tentativo mai iniziato di uccidere il capo del fascismo.

Grazie a colui che Zaniboni considerava il suo braccio destro, venne subito attenzionato dalla polizia, che seguiva ogni suo movimento. L’informatore, l’infiltrato, la spia fu proprio Carlo Quaglia, l’amico che prenotò la camera n. 90 dell’albergo Dragoni a nome di Domenico Silvestrini, posizionò il fucile nell’armadio e parcheggiò l’automobile per la fuga. In continuo contatto con il questore Giuseppe Dosi, fece sì che la polizia potesse vigilare e intervenire al momento giusto. Quaglia era un brillante studente in giurisprudenza poco più che vent’enne, noto anche come giornalista del giornale del Partito Popolare Il Popolo. Divenuto avvocato si trasferì in africa, dove, secondo alcuni testimoni, esercitò la professione in Somalia.

Zaniboni, dunque, fu lasciato fare fino all’ultimo per permettere al questore di coglierlo sul fatto e con lui arrestare anche i sui complici, tranne ovviamente il Quaglia, offrendo così a Mussolini il pretesto per dare un ulteriore giro di vite alle libertà democratiche. Non è chiaro se il Duce fosse stato a conoscenza del complotto ai suoi danni fin dall’inizio o se invece lo apprese solamente dopo la cattura di Zaniboni. Sta di fatto che tutto contribuì a farso apparire come una vittima e a stringere attorno a sé i fascisti di tutta Italia, anche quelli che erano rimasti più negativamente impressionati dall’assassinio di Matteotti.

Alle 8,30 del mattino del 4 novembre 1925 scattò la trappola. Quando Zaniboni e Quaglia arrivarono all’albergo e raggiunsero la camera furono accolti da una squadra di poliziotti guidata dal vice questore Enrico Belloni, che li trassero in arresto per tentato attentato alla vita del Primo ministro. Quaglia ovviamente fu subito rilasciato mentre Zaniboni venne arrestato e imprigionato.
L’opinione pubblica fu informata solo il giorno 5 novembre dai giornali. Il fatto destò grande clamore, anche perché si trattò del primo tentativo di uccidere Mussolini. Oggi sappiamo che il Duce subì nel volgere di poco tempo altri tre attentati da parte dell’inglese Violet Gibson, dell’anarchico Gino Lucetti e del giovane bolognese Anteo Zamboni.

Il primo provvedimento adottato dal governo fu lo scioglimento del Psu e la chiusura del suo quotidiano La Giustizia. Immediatamente si scatenò la violenza delle squadre fasciste, si invocò la pena di morte e furono occupate e distrutte tutte le logge massoniche di Palazzo Giustiniani.
Nel 1926 seguirono la stessa sorte tutti i partiti d’opposizione e i loro giornali. Il processo, il cui esito era scontato, iniziò soltanto l’11 aprile 1927. Dapprima Zaniboni negò d’aver avuto l’intenzione di attentare alla vita di Mussolini, ma nella seduta successiva chiese la parola e inaspettatamente ammise s’essere l’unico responsabile di quel tentativo d’attentato.

Rivolto al presidente del tribunale affermò: “Dichiaro senz’altro che il giorno 4-11-1925 era mia intenzione sopprimere il Capo del Governo Benito Mussolini. Se la Pubblica Sicurezza invece di giungere all’albergo Dragoni alle 8,30 fosse giunta alle 12,30 io avrei senza alcun dubbio compiuto il mio gesto. Il delitto aveva lo scopo di rimettere il potere nelle mani di Sua Maestà il Re”.
La sentenza non lasciò scampo. Zaniboni fu condannato per alto tradimento a 30 anni di carcere, la stessa pena toccò al generale Luigi Capello, che venne di conseguenza degradato. Il generale negò sempre con forza d’essere implicato nell’attentato, ammettendo solamente d’aver incontrato una volta Quaglia, inviato da Zaniboni, per consegnarli 300 lire, indispensabili per finanziare una manifestazione di reduci antifascisti. Lo stesso Zaniboni cercò invano di scagionarlo da ogni responsabilità nel suo progettato gesto. L. Capello fu liberato nel 1936, forse perché lo stesso Mussolini si convinse della sua innocenza e posto sotto sorveglianza. Morì a Roma nel 1941.
Un altro aiuto economico sarebbe arrivato, sempre per ammissione di Zaniboni, dal capo del governo cecoslovacco Tomas Masaryk.

Una volta in carcere Zaniboni dimostrò la sua fragilità d’animo, una certa dose d’incoerenza politica, un inspiegabile atteggiamento ambiguo verso il regime e in particolare nei confronti di Mussolini. Nel 1935, ad esempio, spedì diverse lettere a Mussolini ringraziandolo d’aver aiutato economicamente la figlia Bruna a terminare gli studi universitari in farmacia. La stessa figlia a sua volta non mancò di fare dono al Duce della sua tesi di laurea. Nel 1939 fece inoltre alcune inspiegabili dichiarazioni in favore del fascismo, senza mai però aderirvi.

Zaniboni venne scarcerato l’8 settembre 1943 e l’anno successivo fu chiamato dal governo Badoglio per ricoprire l’incarico di Alto Commissario per l’epurazione nazionale dal fascismo. Lo scopo di Badoglio è da individuare nel tentativo rompere il fronte antifascista e avere maggiore spazio di manovra.

Il Psi rifiutò l’offerta d’entrare nel governo ed espulse lo stesso Zaniboni per aver accettato l’incarico dal quale si dimise alla metà di maggio. Nel secondo governo Badoglio fu nominato fino al 1945 Alto Commissario per i profughi e i reduci.
Dal 1950 al 1960 ricoprì la prestigiosa carica di presidente del UNUCI (Unione nazionale degli ufficiali in congedo d’Italia).

Nel 1947 aderì alla scissione di Palazzo Barberini e al neonato Psli. Morì a Roma nel 1960. I suoi concittadini gli hanno dedicato una piazza a Monzambano e i comuni di Viadana e Parma gli hanno intitolato una strada.




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