Il Pd sorpassato dal nuovo Conte

Giuseppe Conte campanella

Parlare del Pd in Emilia significa parlare del Partito con la p maiuscola ossia il Pci, la forza di riferimento per chiunque sia nato nel Novecento e ancora a questo mondo, il partito-mamma come fu in Italia la Democrazia Cristiana durante l’intera Prima Repubblica.

Da queste parti lo switch tra Pci e Pd è stato e rimane indolore nonostante la molta acqua passata sotto i ponti. L’Emilia è questa, a maggioranza di sinistra ma più specificamente comunista, anche se quasi nessuno più accetta di definirsi tale: di comunismo si deve parlare senza nostalgia ma con estremo rispetto, come se si dicesse di un congiunto scomparso troppo presto. Il senso di appartenenza al mito di Marx prima e di Lenin poi viene coltivato e protetto nelle coscienze di decine di migliaia di orfani i quali, quasi tutti almeno, hanno imparato a sentirsi tali senza tuttavia arrendersi. Non si chiama più Pci, ma il Pd è roba nostra.

Anche per questo, soprattutto per questo i tanti che si sono sforzati di entrare nel partito fondato da Veltroni dopo anni di sperimentazioni inconcludenti stentano a riconoscersi in una identità liquida, come oggi si ama dire. Hanno patito Renzi sino al tonfo elettorale, vorrebbero un segretario forte, carismatico, intoccabile. Invece gli è capitato Zingaretti affiancato da un imbarazzante Bettini ripescato dagli ozi thailandesi, amici da ragazzi, perfetti ritratti di quel romanocentrismo che al Pci e poi al Pd non ha mai saputo vincere.

A cosa serve, oggi, il Pd? Non lo capisce nessuno, in realtà, fatto salvo appunto realtà storicamente egemonizzate come l’Emilia nelle quali il partito è rimasto in piedi come punto di riferimento per i poteri nel territorio. Confindustria, per dire, quando deve dialogare con le istituzioni locali non ha certo bisogno di guardare a destra: tratta con chi comanda, ovviamente, e chi comanda in Emilia rimane il Partito, sia pure nella formula dimagrita del Pd.

Faticano, i democratici odierni che si sentono eredi del tradizionale buon governo del Pci, a comprendere il senso dell’alleanza strategica con i grillini, alla guida dei quali si accinge a muoversi il presidente del Consiglio defenestrato Giuseppe Conte. A sostegno assoluto e gratuito del governo cosiddetto giallorosso i vertici democratici si sono spesi oltre ogni ragionevole previsione, annunciando “O Conte o elezioni” durante la pre-crisi dei mesi scorsi e prefigurando nel sedicente Avvocato del Popolo nientemeno che un ruolo di federatore delle forze progressiste.

Zingaretti e compagni hanno portato acqua dalla nascita del Conte2 a un signore che oggi si mette alla guida del più vicino partito concorrente. La circostanza è segnalata nei sondaggi, dove si nota un trasferimento di voti dal Pd ai grillini di una quota di elettori pari a circa il 5%, sufficienti a resuscitare il movimento del vaffa e ad affondare il Pd, collocato a un impensabile quarto posto.


Si dice che i sondaggi non contino e che i risultati si vedano alla fine, e naturalmente è così. Rimane sul tavolo la domanda: dopo avere sostenuto Conte e avere fatto nascere addirittura un intergruppo di consultazione permanente al Senato con il gruppo grillino e quel che resta di Leu, ora che è al governo con la Lega cosa pensa di fare questo agglomerato di correnti e leaderini denominato partito democratico?

C’è una candidatura in pectore di Stefano Bonaccini alla segreteria, su posizioni riformiste e dunque non grilline, eppure di congresso o di primarie – dice Zingaretti – non si parlerà fino al 2023. Nel frattempo si continuerà a portare acqua a un’alleanza destinata a vincere (forse) in qualche grande città, al prezzo di applaudire l’ambizioso Conte e a subirne, direttamente o meno, la leadership nell’alleanza.

L’improvvido innamoramento per mere ragioni di potere con un’area populista nata per accusare proprio il Pd delle peggio cose viene oggi a galla come un’operazione senza prospettiva. Il partito di Conte si definisce “moderato e liberale” – sì, proprio loro, che gridavano “mafiosi” ai dem e molto altro.

I moderati liberali si-fa-per-dire saranno concorrenti del Pd per la guida di una sopravvissuta area di centrosinistra, e ne dreneranno certamente consensi. Zingaretti resterà fermo, immobile come il semaforo di quella famosa satira su Prodi. Sarà magari costretto a radicalizzare qualche posizione per distinguersi da Conte, ovvero buttarsi a sinistra. Sempre che una sinistra di governo, e non di sola testimonianza, a quel punto esista ancora. Ma rimarrebbe comunque isolata e le destre tornerebbero a vincere.