Due discepoli del Maestro di Nazaret si sono stancati di aspettare. Gesù è morto, probabilmente qualcuno ha trafugato il cadavere, quasi a sottolineare che tutto è finito. Non c’è più ragione per restare a Gerusalemme, a condividere con altri illusi lo sconforto. Si torna a casa propria, nel villaggio di Emmaus. Un particolare mi sembra importante, anche se va contro una consolidata tradizione: penso che fossero marito e moglie. Uno dei viandanti, infatti, si chiama Cleofa e nel vangelo (Gv 19,25) troviamo una “Maria di Cleofa”, che rimane sotto la croce di Gesù assieme alla madre di Gesù e a Maria Maddalena. E’ improbabile che a Emmaus ci fosse una locanda: i pittori, come Caravaggio, hanno riempito la lacuna del racconto evangelico con rappresentazioni mirabili, ma è molto più verosimile che i due stessero tornando a casa loro e abbiano invitato il pellegrino sconosciuto alla loro mensa.
L’aver abbandonato Gerusalemme è l’espressione della caduta della speranza: “Noi speravamo che Gesù avrebbe liberato Israele”, ma adesso non speriamo più. Basta una domanda innocente del pellegrino per far emergere lo sconcerto e la delusione: “Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi? … Si fermarono col volto triste”. La relazione, che essi danno dei fatti esprime la loro tristezza, ma lo sconosciuto li apostrofa severamente: “Stolti e lenti di cuore …”. Ma il termine usato significa “accigliati e di malumore”. Invano, essi cercheranno di riprendere la vita di prima: la memoria del fallimento li accompagna.
L’atteggiamento rinunciatario e triste è anche la tentazione nostra. La caduta del senso di comunità accompagna chi diffida, perché è rimasto deluso. Quanti “accigliati” esprimono il loro “malumore”, spesso aggressivo, nei social media!
La casa di una famiglia, la mensa approntata per la cena, divengono il luogo dove tutto ricomincia. Il Risorto non appare nel Tempio o in qualche altro contesto sacro, ma si manifesta nel gesto più ordinario e quotidiano, il pasto: “Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero”. Il gesto dello spezzare il pane è un indubbio riferimento all’Eucaristia, anzi, tutto il racconto adombra quello che facciamo quando celebriamo la Messa. C’è una lunga “liturgia della Parola”, che dura dodici chilometri, mentre il pellegrino interpreta le Scritture dell’Antico Testamento come profezia della sua vicenda pasquale. Il cuore gelato e arido dei suoi compagni inizia a cambiare: “Ardeva in noi il nostro cuore, mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture”. Gesù dà l’esempio a noi predicatori: il nostro compito è prima di tutto quello di consolare, di aiutare a riconoscere che Dio è vicino e non ci ha dimenticati.
L’incontro però avviene pienamente “nello spezzare il pane”. Il gesto eucaristico esprime l’amore di colui che “avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino al segno supremo”(Gv 13,1). Così, anche la nostra partecipazione all’Eucaristia non si riduce al rito: il rito diventa realtà quando dà forma alla vita.
Così, tutto può ricominciare. Si torna a Gerusalemme, si ritorna alla comunità dei viventi: la strada è lunga ed è notte, ma la luce la portiamo dentro. E’ come è avvenuto nella veglia pasquale: il cero, acceso al fuoco nuovo e che rappresenta il Risorto, trasmette la luce alle candeline che ciascuno porta in mano. Nel buio della notte, tante fiammelle, unendosi, sono come un’aurora.
Nelle nostre famiglie, i pasti vengono spesso consumati di corsa e non sempre tutti sono presenti insieme alla mensa. Tuttavia, alla domenica (dies dominica, giorno del Signore), dovremmo vivere la bellezza dello spezzare il pane, simbolo dell’amore che ci unisce. Magari, prima di cominciare a mangiare, possiamo pronunziare una preghiera. Per esempio, nel Padre Nostro, chiediamo che ci venga dato “il pane quotidiano”, il pane necessario per la vita, ma anche anticipazione del banchetto eterno.
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Amara e splendida analisi che dovrebbe arrivare alle alte sfere!
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