Ci sono dei momenti, nei quali si squarcia il velo che copre la realtà del male, di un male così pesante, che porta molti a chiedersi: ma questo è ancora un uomo?
In una sola settimana, abbiamo avuto la notizia delle orge a base di droga e sesso a Bologna; poi, l’uccisione con violenza bestiale del ragazzo di Colleferro. Infine, l’incendio doloso del campo profughi di Lesbo: dodicimila persone in fuga, a vergogna del mondo cosiddetto civile.
Ci può essere perdono, per tanto male? E cosa vuol dire perdono?
Credo che il punto di partenza sia un onesto riconoscimento del nostro debito. Nella parabola del servo spietato (Matteo 18), c’è un uomo che viene convocato dal re, perché ha un debito di dieci miliardi di euro. Non può pagare, si sente perduto, chiede una dilazione del pagamento, ovviamente irrealistica. Ma il re si impietosisce e con sovrana liberalità gli condona tutto. Il servo esce nella leggerezza e nella gioia della libertà. Ma proprio sulle scale del palazzo, incontra un collega che gli deve poche migliaia di euro: lo prende per il collo, esige il pagamento. L’altro lo supplica, con le stesse parole che erano state rivolte al re. Ma l’ingrato e spietato non sente ragioni, trascina il suo compagno in prigione. Il re, informato, gli ricorda il condono gratuito: “Io ti ho condonato tutto quel debito, solo perché mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, come io ho avuto pietà di te?”; e lo condanna alla prigione. Gesù conclude: “Così anche il Padre mio celeste farà con voi, se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello”.
Nella vita spirituale, c’è un passaggio importante, quando ci rendiamo conto del nostro debito verso Dio. L’importo del debito non dipende dal male del quale siamo consapevoli: in tal caso, siamo molto bravi a trovare le giustificazioni. L’importo del debito scaturisce dalla contemplazione del Crocifisso, dalla meditazione delle parole dell’Eucaristia: “Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue, per voi”. Chi, di fronte alla croce di Gesù, può dire: “Io non c’entro”? Nello stesso tempo, chi può dire: “Il male da me commesso è più pesante del sangue di Dio”?
Ognuno di noi ha dei debitori. La massima parte dei nostri pretesi crediti è fatta di puntigli, antipatie, gelosie. Ma vi possono essere anche importi più pesanti. Tuttavia, se abbiamo messo al centro della nostra vita Gesù, non ci interessa il calcolo delle proporzioni. Ci rendiamo conto, invece, che la nostra libertà e, di conseguenza, la nostra gioia dipendono dalla memoria del nostro debito. San Paolo ci dice: “Non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole” (Rom 13,8). Il debito della larghezza di cuore verso gli altri uomini ci appare come l’unico modo per ricambiare, almeno un poco, l’enormità dell’amore di Dio.
Chi ha almeno iniziato questo percorso, diviene consapevole di una profonda fraternità con gli altri uomini, in particolare con chi ha compiuto azioni malvagie e inescusabili. Non vengono offerte scusanti a buon mercato: il male rimane male, con tutto il suo peso. Ma l’enormità del debito richiama l’enormità del perdono, che a sua volta diviene la misura della dignità del peccatore. A tutti viene aperta la possibilità di una vita nuova, nella quale la carità, la riparazione, ove possibile, del male commesso, il dono gratuito, l’accoglienza del povero diventano sollievo al rimorso.
La Chiesa non è la comunità dei puri, ai quali è permesso di giudicare gli altri. La Chiesa è la comunità dei perdonati, che conoscono se stessi e hanno conosciuto anche il cuore di Dio. Per questo, ogni uomo, qualunque sia il peso che porta, può trovare in lei dei compagni di viaggio, in grado di consolare e di incoraggiare.
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Amara e splendida analisi che dovrebbe arrivare alle alte sfere!
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