Si apre la stagione dell’Opera dei Teatri di Reggio Emilia con Lucrezia Borgia, Melodramma di Felice Romani e musica di Gaetano Donizetti.
Opera minore di Donizetti, ci racconta di una Lucrezia Borgia diversa dalla sua nomea, prima di tutto donna e madre. Spinta dall’amore per il figlio illegittimo Gennaro, scappa a Venezia e si presenta a lui in incognito; il giovane colpito dalla bellezza della donna non indugia e le confessa il suo amore, per poi ritirare tutto non appena gli amici gli rivelano essere Lucrezia Borgia, per poi prendersi gioco di lei.
La donna rientra a Ferrara senza sapere di essere stata spiata durante il soggiorno a Venezia dal marito, Don Alfonso, il quale vorrà la sua vendetta attraverso la morte del giovane Gennaro, che crede amante della moglie. Lucrezia lascia trapelare il suo amore materno e, pur costretta dal consorte a porgergli il vino avvelenato, gli consegna anche l’antidoto, rivelandogli infine di essere sua madre. La nostra Borgia preferita a quel punto ritorna quella che abbiamo sempre conosciuto e chiede al Duca la morte di tutti coloro che le avevano mancato di rispetto a Venezia. Alla festa organizzata in casa Negroni offre a tutti vino avvelenato, non sapendo però che Gennaro è fra i presenti; quando lo scopre, Lucrezia tenta di offrirgli nuovamente l’antidoto, ma lui per solidarietà agli amici si lascia morire. Lucrezia a quel punto in un atto di follia si taglia le vene.
La scenografia è minimale, ma efficace: un soffitto a cassettoni elegante e finemente illuminato, che in una lenta rotazione diventa lo scuro muro che porta la scritta Borgia, che sarà poi Gennaro stesso a sfregiare. Interessante l’uso delle culle, simbolo inizialmente dell’oltraggio a Lucrezia da parte dei giovani uomini a Venezia; riprese poi per rappresentare la vendetta della nobildonna quando, rotte tutte nello stesso modo, vengono svelate nel momento in cui si rivela che il vino è avvelenato. Superflua invece la collinetta di terra, che non trova mai un vero scopo nel corso dell’opera.
Carina l’idea di risaltare il lato materno di Lucrezia Borgia, che qui è spinta in tutto dall’amore materno; lascia indubbiamente un’immagine diversa di questo famosissimo personaggio femminile. Il dubbio sorge, però, inserendo questa scelta registica nell’oggi, dove sempre più si cerca di superare il concetto di donna solo legato a quello di madre; è molto importante invece, oggi più che mai, accettare che un personaggio femminile sia potente e vendicatore, senza ricercare il perché, come non lo si ricerca davanti ad un antagonista maschile. È bello, tuttavia, che venga mantenuto, almeno in parte, l’aspetto incestuoso della storia di Lucrezia Borgia, che di tanto in tanto riaffiora con il figlio Gennaro.
Interessante invece il rapporto fra Gennaro e Maffio Orsini, che la regia ci presenta come un amore molto poco amicale, anzi quasi carnale. La scelta è bella soprattutto perché non cozza né con la musica, né con le parole; un’intera aria è dedicata alla promessa dei due di non lasciarsi mai qualsiasi cosa accada.
Sintomo dell’ansia da svecchiamento la ballerina che compare alla festa in casa Negroni, vestita in sottoveste d’epoca, ma con movenze da spogliarellista del duemila; fuori luogo semplicemente perché fuori contesto. Fortunatamente non si presentano nel corso della visione altre trovate simili.
Gli interpreti hanno nel complesso un buon livello, anche se non eccellente. Per molti rimane ancora molto lavoro per arrivare a combinare il bel canto ad una recitazione realistica ed emozionante, che riesca ad esaltare la voce, non a sminuirla. In un’ottica generale risulta un buon prodotto, con alcune pecche, ma gradevole come intrattenimento.
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Amara e splendida analisi che dovrebbe arrivare alle alte sfere!
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