Negli anni successivi alla Prima guerra mondiale, il tema al centro del dibattito politico, specie nel Psi, era se fare o no come in Russia. La rivoluzione bolscevica aveva impressionato tutti, che guardavano a Mosca come alla terra promessa. I giovani invocavano la rivoluzione, anche in termini rivendicativi rispetto alle promesse non mantenute fatte al momento dell’entrata in guerra, mentre il gruppo dirigente del partito si mostrava spaccato tra massimalisti, comunisti e riformisti circa il da farsi e sul giudizio da dare sul governo dei soviet.
I quesiti a cui tutti erano chiamati a rispondere erano: Esistono in Italia le condizioni sociali, politiche ed economiche per fare come in Russia? Il partito era sufficientemente forte, organizzato e diffuso per scatenare e reggere lo scontro con la borghesia e lo Stato? La realtà russa, che pochi ancora conoscevano, garantiva le libertà politiche e dei singoli o non aveva caratteri dispotici e repressivi? La peculiarità del socialismo italiano poteva essere salvaguardata o sarebbe stata cancellata? Le sollecitazioni provenienti da larghi strati proletari andavano considerate razionali o velleitarie?
Su questi quesiti si interrogò e si tormentò a lungo la dirigenza del partito, tra analisi, dibattiti e ricerca di equilibri interni sempre più precari. Una decisione s’imponeva: l’adesione o meno alla Terza Internazionale comunista, nata a Mosca nel marzo 1919. Essa spezzava ogni legame ideologico e organizzativo con la vecchia, quella socialista, bollandola d’infamia. La Seconda internazionale, quella socialista, doveva in sostanza essere considerata morta e sepolta. Non considerandola ancora completamente definita, ma ancora capace di accogliere le osservazioni e le modifiche ai ventun punti deliberati, che altri partiti socialisti europei, specie quello italiano, avrebbero fatto, il Congresso socialista di Bologna del 1919 votava l’adesione alla Terza internazionale.
Nel corso del dibattito Claudio Treves s’era preoccupato di chiarire a nome dei riformisti che il loro voto andava considerato come adesione a una Terza Internazionale in divenire che non a quella costruita a Mosca. Anche per i massimalisti non mancavano elementi equivoci che dovevano al più presto essere chiariti. Si dicevano certi che le proposte di modifica avanzate dal Psi avrebbero trovato ascolto, anche perché provenivano dall’unico partito socialista europeo che si era schierato contro la guerra. Il voto di Bologna veniva così a essere sostanzialmente un atto di solidarietà con la rivoluzione russa.
Tutto fu più chiaro al secondo congresso dell’Internazionale del luglio- agosto 1920, quando i bolscevichi chiarirono e imposero che tutti i partiti aderenti dovessero costituire una formazione di combattimento, a direzione fortemente centralizzata, capace di condurre la lotta con mezzi legali e illegali.
Di ritorno da Mosca Serrati continuò tuttavia a manifestarsi fiducioso sulla possibilità che il Psi potesse ottenere una deroga almeno su due delle condizioni imposte: l’espulsione dei riformisti e il mutamento del nome del partito in quello di partito comunista italiano.
L’intento di Serrati era quello di tenere unito il partito nella resistenza ai diktat moscoviti, senza arrivare alla rottura. La grande maggioranza dei massimalisti era d’altra parte con lui. Solo la minoranza comunista si presentava convinta delle argomentazioni russe. A questo punto la maggioranza di Bologna si sfaldò e nacque una nuova geografia politica interna al partito. I primi a rivendicare la libertà d’azione furono i riformisti. Organizzatisi in frazione, tennero a Reggio Emilia un loro convegno nazionale il 10-11-12 ottobre, nel corso della quale precisarono le linee della loro piattaforma ideologica e politica, in netta contrapposizione con quella della frazione comunista e con toni più sfumati nei confronti delle atre posizioni.
Zibordi affermò la necessità di rifarsi alla concezione ideale e morale storica del socialismo, seppur rinnovata alla luce delle attuali contingenze. Le masse, a suo parere, dovevano affrancarsi dai condizionamenti della guerra e della Rivoluzione russa, sfuggendo così al “miracolismo” di azioni violente, confuse e velleitarie. Alla fine fu approvata la mozione Baldesi-D’Aragona che precisava la necessità di mantenere unito il partito, il mantenimento del nome del partito, il rifiuto di qualsiasi discriminazione nei confronti dei riformisti, l’adesione alla Terza Internazionale, volta a lanciare un messaggio distensivo ai massimalisti, pur salvaguardando la propria autonomia circa l’applicazione dei 21 punti voluti da Mosca.
Si affermava inoltre la fiducia nella via legalitaria e parlamentare, negando che la crisi economica e sociale scaturita dalla guerra costituisse il presupposto sufficiente per avviare la presa del potere per via rivoluzionaria.
Il convegno fu chiuso da un applaudito discorso di Prampolini. L’invito all’unità venne colto con favore sia da Serrati che da Costantini Lazzari, che si spesero nella difesa dei riformisti. Oltre a non riconoscere in Italia le condizioni minime per avviare la rivoluzione, Serrati si disse certo che qualora ciò fosse avvenuto, si sarebbe creato un blocco economico dei paesi capitalistici insopportabile per la fragile economia italiana.
La fretta di Lenin non trovava, a suo parere, le condizioni sufficienti per essere praticata. Da qui nacque il grande tormento della frazione massimalista unitaria alla vigilia del congresso di Livorno del gennaio 1921, che, oggi sappiamo, sancì l’uscita dei comunisti dal Psi e la nascita del Partito comunista d’Italia. Serrati che nel 1921 si oppose alla espulsione dei riformisti, la decretò, insieme a Lazzari, nel 1922. Nel 1924 sempre più condizionato dalle sirene di Mosca fu fautore della fusione tra Psi e Pcdi e fondò una tendenza internazionalista, definita la “terzina”, che aderì al Pcdi.
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