L’avvento dell’era Draghi ha prodotto negli italiani un senso di appartenenza all’Europa sinora sconosciuto. Non che mancassero gli europeisti a parole, soprattutto a livello di rappresentanza politica: mancava invece il fondamentale principio di fiducia. E non è che all’improvviso sia esploso un fraterno amore ricambiato. È che, con Draghi, ai tavoli dell’Unione la sensazione è che per la prima volta siamo noi, italiani spesso negletti e talvolta umiliati, a dare le carte.
Questo aspetto dell’affidabilità del presidente del consiglio sullo scenario internazionale potrebbe anche risultare marginale rispetto alla grande storia, sebbene certamente utile nella complicata fase che il continente sta attraversando, e in esso ovviamente il nostro paese. Ma per un giorno vorrei riflettere sullo specifico passaggio in corso e in particolare su quanto detto da Draghi al summit europeo di giovedì 25 marzo. Ancora più in particolare, sulla svolta che il premier italiano vorrebbe indirizzata verso un safe asset dell’Unione, ossia alla creazione di un titolo di sicurezza interna sulla falsariga di un bond. Un eurobond.
Tornare a parlare di eurobond nella massima sede politica continentale senza ricevere ben che vada sorrisi maliziosi, o mal che vada insulti a viso aperto, significa avere compiuto passi enormi in tema di credibilità. Angela Merkel è sul viale del tramonto e non si vedono figure in grado di sostituirla con analoghe capacità alla cancelleria. Macron balla nei sondaggi: l’asse franco-tedesco non verrà meno, ma l’Europa di oggi e di domani vede in calo le posizioni dei falchi del Nord a vantaggio delle posizioni dell’area mediterranea. Non per caso, ma per necessità. Il leader di questo processo è già, nelle cose, Mario Draghi. Il quale parlando agli italiani ma non solo ha detto: questo è un anno in cui bisogna dare soldi, non chiederli.
La creazione di un safe asset nella struttura contabile dell’euro determinerebbe un primo cambiamento tra i cittadini della Ue, i quali inizierebbero a condividere le basi fiscali del continente e di conseguenza a sentirsi europei più di quanto si sentano ora. Si parla di politica, non di finanza, e alla velocità con cui il mondo va cambiando i governi statali e le istituzioni europee non riescono a reggere il ritmo.
La domanda che dobbiamo porci riguardo il ventunesimo secolo è di natura geopolitica. Crediamo davvero che nell’inevitabile aggregazione tra nuovi blocchi i singoli stati membri dell’Unione possano muoversi in ordine sparso, o comunque in funzione gregaria e decadente dinanzi alle gigantesche sfide per la terra, l’acqua, la stessa sopravvivenza della specie umana che ci attendono?
Quando si parla di Europa non si può pensare a un’entità astratta composta di burocrati e politici in pensione o quasi. L’Europa è lo snodo centrale del futuro in questa parte del mondo. Può galleggiare in eterno, e allora un giorno finirà per mettersi di traverso e intralciare il traffico, come sta ora accadendo a Suez; oppure può comprendere che solo attraverso uno slancio eccezionale può diventare in pochi anni ciò che già è, ovvero una potenza mondiale capace di sedere al tavolo di Usa, Cina, India e Russia con analogo potere negoziale.
Mario Draghi agisce da premier in Italia ma le sua linea non manca di prospettiva europea. La sua leadership sarebbe preziosa in una fase costituente da ridefinire e rilanciare dopo i fallimenti referendari del 2005. Ve ne sono le condizioni? Il decennio populista che abbiamo alle spalle non concede altri spazi di manovra. Ciò che possono fare ora le generazioni più adulte è consegnare a chi verrà dopo un’Europa non solo in pace ma unita in federazione o unione di stati. Prima saremo europei, poi italiani, tedeschi, francesi… Il destino della storia porta in quella direzione, se ne saremo all’altezza.
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Amara e splendida analisi che dovrebbe arrivare alle alte sfere!
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