I modelli predittivi applicati alla pandemia dicono che il picco dei contagi arriverà in Italia alla metà di marzo. Poi scenderà, qualora nel frattempo siano state varate quelle misure di contenimento in grado di fermare l’espansione virale là dove si manifesta in forma più aggressiva.
Le prime giornate di sole quasi primaverile indurrebbero a considerazioni opposte: si vorrebbe cioè che l’avvicinarsi della bella stagione, insieme con la campagna vaccinale da poco partita, contribuissero all’uscita dall’incubo Covid e ci riportassero a uno stile di vita meno segnato dall’angoscia. Purtroppo, non è così. E non lo sarà ancora per un bel pezzo.
Ciascuno di noi, fatte le debite eccezioni, vive questo periodo nell’incertezza tra due posizioni, entrambe del tutto comprensibili. Da un lato ci si sente “chiusuristi”, atteggiamento che trova spazio accanto alle notizie funeste che provengono dagli ospedali, e che moltiplica le paure di essere contagiati noi stessi e le persone che amiamo. Dall’altro, e accade spesso, prevale una posizione “aperturista”: vivere di restrizioni non è possibile, non è vita – si pensa – e poi governo e regioni fanno confusione, e non ha senso chiudere i ristoranti, e gli allarmi sono sopravvalutati e via dicendo.
Si oscilla tra le due posizioni a seconda dei periodi e dei singoli momenti, condizionati ovviamente dai media e dalle notizie ufficiali. C’è anche chi si informa via canali ufficiosi, spesso di matrice complottista o comunque dedita allo spaccio di fake news: meglio evitare.
Le misure di precauzione fondamentali per evitare il contagio sono le stesse, ma è sempre più faticoso rispettarle. Abbiamo imparato a convivere con il virus concedendo via via a noi stessi qualche ristretto margine di libertà, e come negarcelo? Non bisogna ammalarsi ma nemmeno sopravvivere da amebe. Non si viaggia, niente vacanze, nessuna via di fuga. E di conseguenza nessun sogno, progetto, ambizione. L’immaginario si restringe e si riassume in smart working e nella vita in famiglia, con maggiori difficoltà pratiche per chi ha figli in età scolare da accompagnare a scuola. Quando la scuola è aperta.
Penso a volte ai baby-Covid, come probabilmente saranno chiamati tra qualche decina d’anni i nati e cresciuti in questa fase storica. I più giovani di oggi, e gli altri che arrivano ora alla vita, si troveranno ad affrontare un mondo assai diverso da quello dei propri genitori. Questi ragazzi entrano in un mondo a scadenze quotidiane e orarie. Non conoscono la libertà come propria condizione naturale. Saranno addestrati a comportamenti quotidiani differenti, soprattutto in età adolescenziale. Vivranno la scuola, le amicizie, le scoperte del sesso e della prima età adulta come passaggi condizionati dalle circostanze esterne. Ci sarà da fare per psichiatri, pediatri, psicologi.
L’avvento delle varianti inglese, sudafricana, brasiliana minaccia anche la popolazione più giovane, quella che nella prima ondata si considerava meno a rischio di contagio e di sviluppo della malattia. È diminuita l’età media dei contagiati e delle vittime. Si osserva una situazione complicata per molti che si sono ammalati di Covid e ne portano pesanti conseguenze dalla durata di mesi e forse più.
Puntiamo tutto sui vaccini, si è detto, ma non possiamo dimenticare che di quei vaccini (che tecnicamente vaccini non sono) non conosciamo le possibili conseguenze. Meglio attrezzarsi con la consapevolezza: non torneremo quelli di prima, ne usciremo comunque profondamente cambiati sia come individui sia come società. E diversi dalle nostre aspettative usciranno quelli che verranno dopo di noi.
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