Fascistizzazione delle coop reggiane

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Il “sistema” di governo socialista, noto e ammirato in tutta Italia, si basava su presupposti politici ed economici che si possono riassumere in: controllo amministrativo dei comuni, Camere del Lavoro, Leghe di resistenza, economia cooperativa. Lo sviluppo di queste ultime fu tale che nel 1920-21 una larga fetta dell’economia reggiana era controllata dal movimento cooperativo, mentre il mercato della manodopera veniva gestito direttamente dagli uffici di collegamento della Camera del Lavoro (foto Camera del lavoro Reggio Emilia – Istoreco).

Le cooperative di consumo, in particolare, associavano o servivano oltre 100.000 soci o clienti, un terzo cioè della popolazione provinciale. Per avere un’idea ancora più precisa della consistenza, della diffusione e della forza del movimento cooperativo, è sufficiente leggere i risultati diffusi dalla prefettura nel 1921.
Da quella ricerca apprendiamo dell’esistenza di almeno 200 cooperative aderenti alla Camera del Lavoro, di cui 86 di consumo e 84 di lavoro, senza contare, specie nella Bassa, quelle agrarie e le Leghe di resistenza. Molto importante fu il ruolo esercitato dalla Cassa cooperativa dei Contadini, che affittò diversi fondi da affidare ai soci e rispondere alle richieste delle Leghe di braccianti.

Risulta dunque del tutto evidente la contrarietà manifestata dagli industriali e dagli agrari contro un sistema economico che riduceva o metteva a rischio i loro profitti. Basti pensare all’opera calmieratrice dei prezzi e quindi antispeculativa esercitata dalle cooperative di consumo. Un altro motivo di malcontento degli agrari era costituito dall’occupazione legale di terre assegnate, in seguito a interventi legislativi del dopoguerra, alle cooperative negli anni “rivoluzionari” del “biennio rosso”, quando la rivoluzione sembrava imminente e inevitabile.

Per tornare in possesso di quelle terre gli agrari si affidarono e foraggiarono materialmente le squadre fasciste, con l’intento anche di eliminare il sostegno che le cooperative davano ai lavoratori impegnati in lotte sindacali per l’imponibile della mano d’opera o per gli aumenti salariali.

Con l’avvento del fascismo e la complicità delle forze dell’ordine, gli assalti armati alle cooperative, le devastazioni e gli incendi delle stesse, le violenze fisiche subite dai dirigenti cooperativi e le minacce alle loro famiglie, si verificarono un po’ ovunque.
Ben presto si contarono anche i primi morti e tutto il sistema crollò. Molti dirigenti furono costretti a dimettersi e spesso ad allontanarsi dal loro comune di residenza.
Le cooperative che cercarono di resistere alle violenze non furono più chiamate a partecipare alle aste pubbliche per l’assegnazione dei lavori, cosa che fecero anche i privati. Le cooperative rimaste senza lavoro e con la disoccupazione che aumentava giorno dopo giorno, alla fine dovettero cedere. Tra le prime che ne fecero le spese ci furono quelle di Bagnolo, di S. Pellegrino, di Rubiera, di Novellara, di Villa Cella e Pieve Modolena. Poi seguirono tutte le altre, specie quelle agricole esistenti nei comuni della Bassa. Consapevoli del ruolo esercitato dalle cooperative a sostegno dell’economia provinciale, e alla necessità di non perdere i soci più professionalizzati, oltre alla violenza esercitata sul gruppo dirigente, i fascisti misero in campo altre modalità più sofisticate e meno violente per raggiungere il loro obiettivo.

Le cooperative furono dapprima costrette ad aderire al sindacato fascista, nato il 9-3-1921, e successivamente all’Ente nazionale fascista della cooperazione. Con alcune modifiche sostanziali introdotte negli statuti, secondo le quali i soci per essere ammessi non dovevano professare idee antinazionali e il numero dei componenti il CDA doveva essere molto più ristretto rispetto a quello precedente, iniziò la loro normalizzazione.
Con l’immissione poi di uomini di sicura fede fascista, a cui attribuire il ruolo decisionale, il fascismo riuscì a controllare definitivamente l’attività delle cooperative.


Quando tutto questo non fu sufficiente, si fece in modo di farle commissariare dalla locale prefettura, che provvedeva d’ufficio a commissariarle, per poi procedere al rinnovo del Consiglio d’amministrazione con l’immissione di uomini legati al fascio. Stessa sorte toccò alle banche cooperative esistenti in provincia.

I fascisti, consapevoli della larga presenza nella loro base sociale di molti socialisti, avviarono una silenziosa ma sistematica sostituzione dei soci più irriducibili con altrettanti soci di sicura fede fascista.

Nel 1925, nonostante gli ultimi disperati tentativi del presidente nazionale delle cooperative, il reggiano Antonio Vergnanini, di salvare quanto rimasto, anche la Lega delle cooperative venne definitivamente sciolta.

Antonio Vergnanini

Nel 1926 anche la Cassa Cooperativa Contadini subì la stessa sorte, tanto che dopo la gestione commissariale, si trasformò in Consorzio agrario reggiano, associazione agrarie riunite della provincia di Reggio Emilia.