Fasci siciliani e la repressione anche a Reggio

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Grazie all’opera di alcuni intellettuali e ferventi attivisti, tra i quali Giuseppe De Felice, Nicola Barbato e Rosario Garibaldi Bosco, si era sviluppato in Sicilia, a partire dal 1893, un forte movimento di contadini, che ingrossò le fila dei “Fasci”, una organizzazione politica già esistente e formata prevalentemente da socialisti e anarchici.

Nati dapprima nelle città grazie all’adesione di operai, artigiani e commercianti, i Fasci raggiunsero presto le campagne dove il malcontento dei contadini era ormai giunto al culmine e si diffusero in tutta l’isola. Questi insieme a quelli del lontano Polesine, erano considerati i lavoratori più sfruttati e poveri d’Italia. Decimati dalla malaria e dalla pellagra, erano considerati come veri e propri servi della gleba in balia del volere degli agrari o in Sicilia del barone di turno.

La loro protesta nacque pacifica e tutta rivolta a conquistare migliori condizioni di vita. Si trattò quindi di proteste e manifestazioni economico-rivendicative, senza particolari significati politici, anche se i loro dirigenti parteciparono al congresso socialista di Genova del 1892.

In quella circostanza non solo conferirono dignità nazionale alle loro rivendicazioni e allo stato di arretratezza della Sicilia, ma contribuirono a conferire una dimensione nazionale anche al neonato Partito dei lavoratori italiani.
La svolta si ebbe quando Francesco Crispi intese riportare ad ogni costo l’ordine e iniziò a reprimere ogni forma, anche pacifica, di protesta. Tra dicembre 1893 e gennaio 1894 l’intervento dell’esercito si rivelò devastante, provocando esecuzioni sommarie e arresti di massa. I morti superarono il centinaio. Manifestazioni di protesta e di solidarietà si svolsero in molte città e regioni d’Italia, specie in Lunigiana, dove il popolo insorse e si scontrò con l’esercito.

 

Ai primi di maggio del 1893, una manifestazione per rivendicare la giornata lavorativa di otto ore, venne proibita e Nicola Barbato, presidente del Fascio di San Giuseppe Jato, fu arrestato. Giunti a quel punto il Fascio di Palermo, il più forte e importante di tutta l’isola, lanciò un appello al Psi e a tutti gli altri Fasci perché i lavoratori in lotta non si lasciassero calpestare impunemente.

La Giustizia, nel condividere le ragioni sollevate dai Fasci, invitò il popolo a non cadere nella trappola appositamente organizzata dal governo per sciogliere e reprimere tutte le organizzazioni operaie.
Raccomandò di non provocare disordini e non fornire alcun pretesto per scatenare la repressione. Occorreva invece, sempre secondo La Giustizia rafforzare le associazioni, tenerle attive e combattive, fino al giorno della vittoria finale del proletariato.
Anche il secondo congresso nazionale dei socialisti svoltosi a Reggio Emilia nel 1893, rivolse un caloroso saluto ai lavoratori siciliani e agli oltre 162 Fasci sorti nell’isola, augurando loro la conquista delle loro rivendicazioni e un futuro di progresso e pace.
Ma la situazione nell’inverno ’93 cominciò a sfuggire di mano. La popolazione sfinita dalla fame, dalle malattie e in balia dei baroni della terra, assaltò le gabelle del dazio e saccheggiò diversi municipi e uffici governativi.

La reazione governativa fu scontata e terribile. Il 14 gennaio 1894 venne proclamato lo stato d’assedio in tutta l’isola e tutti i membri del Comitato Centrale dei Fasci furono arrestati. A Roma e a Napoli si registrarono arresti di massa e lo stato d’assedio venne esteso ad altre zone dell’Italia: alla Lunigiana, a Guastalla, alla Lombardia. L’anarchico mantovano Luigi Molinari venne arrestato e condannato addirittura a 23 anni di reclusione.

Crispi e il suo governo commisero però un gravissimo errore di valutazione politica. Scambiarono infatti un moto dettato esclusivamente dalla miseria e quindi da motivazioni economiche, per una vera e propria insurrezione organizzata e diretta dalle forze politiche d’opposizione, anarchici e socialisti in primis.

Prampolini, pur rimanendo sempre contrario all’uso della forza e della violenza, il 7 gennaio 1894 sottolineò che i fatti dimostravano che la pretesa nazione italiana non era che una astrazione e che permanevano ancora due popoli in contrasto tra loro: quello dei ricchi e quello dei poveri. Alla richiesta di ordine e di difesa dell’ordine legale, Prampolini rispose: “Ma che legge, ma che ordine è questo che non dà lavoro né pane a una così grande moltitudine di miserabili, come potete sperare che siano con voi tutti coloro per i quali ristabilire l’ordine e l’impero della legge non significa altro che essere di nuovo sottomessi e costretti a stentare e a soffrire?

Le leggi antianarchiche emanate dal governo nel luglio 1894, in realtà colpirono tutte le opposizioni: anarchici, socialisti, repubblicani, radicali e democratici. Il risultato portò a centinaia d’arresti e condanne al carcere, al confino, allo scioglimento delle associazioni, dei circoli politici, alla censura e al sequestro dei giornali cosiddetti sovversivi.

Per avere un’idea della repressione scatenata nel paese, può servire riassumere quanto accadde a Reggio Emilia, una città certamente non siciliana e dove, più che un forte movimento anarchico, stavano crescendo i socialisti umanitari e riformisti guidati da Camillo Prampolini, che certo non ebbero mai nei loro intenti la preparazione di una rivolta armata.

Il 14 settembre il prefetto L. Prezzolini sciolse le leghe socialiste di Reggio, Gualtieri, Guastalla, Masone, San Maurizio, Massenzatico, Cella e poi quelle di Luzzara, Novellara, Campagnola, Rivalta, Fabbrico, Sesso, Canali.

La Giustizia fu costretta, pur di sopravvivere, a dichiarare di non essere più l’organo della lega dei socialisti, ma della neonata “Lega per la Libertà”, composta da socialisti, radicali, repubblicani e democratici.

Agli arresti seguirono i processi e le condanne. Furono condannati al domicilio coatto per due anni e mezzo l’anarchico Angelo Canovi e il socialista Agenore Storchi; per altri cinque aderenti alla Lega socialista la condanna fu di cinque mesi di reclusione.
Con lo stesso capo d’imputazione vennero processati e condannati Camillo Prampolini, il tipografo Giovanni Cerlini, il lattoniere Adolfo Chelucci, l’avv. Alessandro Cocchi, Antonio Vergnanini, Patrizio Giglioli, l’avv. Benedetto Gorisi e lo studente Catelani. Prampolini e Vergnanini (già esule) a tre mesi di confino; Cocchi e Gorisi a due; Chelucci e Cerlini a uno; Catelani a cinquanta giorni.

In seguito tutti gli imputati vennero però tutti assolti dalla Corte d’appello di Modena “perché il fatto non costituisce reato”.
Un’altra quindicina di persone, tra cui il maestro Italo Salsi, poi eletto deputato, e l’avv. Mazzoli furono condannati al domicilio coatto.

La Giustizia commentò: “Siamo in piena tempesta e ognuno, dunque, deve stare al suo posto. Ai colpiti dalla reazione, l’onore altissimo di soffrire per le nostre idee. A tutti gli altri compiere scrupolosamente il sacrosanto dovere di continuare dovunque la propaganda socialista, e, soprattutto, di aiutare le vittime dell’arbitrio e della prepotenza”.
Prampolini e un po’ tutta l’opposizione in parlamento sospettò che il grido d’allarme lanciato dal governo per l’imminenza di un moto rivoluzionario, tale da minare le fondamenta dello Stato, fosse stato diffuso ad arte da Crispi e dai suoi sostenitori per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica e insabbiare il grande scandalo finanziario ed economico legato alla Banca Romana, che vedeva il capo del governo assoluto protagonista. Prampolini denunciò quella manovra diversiva nel suo discorso alla Camera e i fatti che seguirono gli diedero ragione. Da quel momento infatti la carriera politica di Crispi ebbe i giorni contati.