Eravamo innamorati

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Eravamo innamorati di Pansa. Del suo stile unico del racconto politico. Delle metafore che si poteva permettere. Delle maiuscole che solo a lui spettavano – imitarlo portava ignominia tra noi “giovani leoni”, come soleva chiamare i cronisti più giovani che lo aspettavano alla fine di un’intervista o di un dibattito.

Impattai con lui alla metà degli anni Ottanta. Cordialissimo fin dal telefono dal quale rispondeva col cognome come usava una volta. Volevo portarlo in Gazzetta e vi riuscii, anche se poi la serata fu condotta da Umberto Bonafini. Fu un match fra Pierluigi Castagnetti e Vincenzo Bertolini, leader locali di Dc e Pci. Alla fine gli chiesi un giudizio sui due. “Dal primo comprerei un’auto usata. Se mi trovassi alla deriva su una zattera, sceglierei Bertolini”.

Era ancora il primo Pansa, prima del “sangue dei vinti” (che gli diede un altro pubblico, grande fama, un sacco di soldi, accuse di tradimento). Quello che scriveva meravigliosamente bene e non mi importava pro o contro chi.
L’incontro con Adele Grisendi lo portò a Reggio molto più spesso. Intuì che il filone revisionista avesse bisogno di un’icona presentabile che provenisse dalla sinistra. Vi entrò senza più uscirne, con numeri funambolici, applausi e insulti. È sempre stato se stesso, nelle sue contraddizioni. La mia sensazione, da molto tempo, era che non credesse più a nulla. Ma forse mi sbaglio.