Nell’ambito del processo d’appello in corso a Bologna, la Procura generale ha chiesto la pena dell’ergastolo per tutti e cinque i familiari imputati per l’omicidio di Saman Abbas: il padre Shabbar Abbas e la madre Nazia Shaheen, già condannati all’ergastolo in primo grado, lo zio Danish Hasnain (condannato in primo grado a 14 anni di reclusione) e i cugini Ikram Ijaz e Nomanhulaq Nomanhulaq, che in primo grado erano stati assolti.
Concludendo la requisitoria, la procuratrice generale Silvia Marzocchi ha chiesto alla Corte d’appello bolognese una sentenza “che restituisca a Saman il ruolo di vittima di un’azione inumana e barbara, compiuta in esecuzione di una condanna a morte da parte di tutta la famiglia”.
La diciottenne pakistana svanì nel nulla nella notte tra il 30 aprile e il primo maggio del 2021 dalla sua abitazione di Novellara, e fu ritrovata senza vita dopo un anno e mezzo, sepolta a tre metri di profondità nei pressi di un casolare abbandonato nelle campagne novellaresi, non lontano da dove aveva vissuto.
La settimana scorsa c’era stata l’audizione del perito archeologo forense Dominic Salsarola, secondo il quale a deporre il corpo ormai senza vita di Saman Abbas nella fossa dove la ragazza è stata poi ritrovata il 18 novembre del 2022 sarebbero state “come minimo due persone”. Salsarola ha sottolineato come la salma della giovane sia stata adagiata “in modo particolarmente ordinato, in posizione supina, con lo sguardo rivolto verso il cielo, le braccia spostate verso destra”. Deposta, ha spiegato il perito, “quasi con ‘rispetto’, anche se rispetto forse non è la parola giusta. Come un defunto normale”, ha detto. La diciottenne, secondo Salsarola, “è stata calata” nella fossa, “non buttata”, e per questo motivo è difficile che a farlo in quel modo possa essere stata una sola persona. Circostanza che confermerebbe, dunque, quanto meno una “compartecipazione” di più persone all’omicidio e all’occultamento del cadavere della vittima.
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