Una risicata fiducia, ma senza la maggioranza

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Il Senato conferma la fiducia al governo approvando la risoluzione sulle comunicazioni del presidente del Consiglio presentata da Pier Ferdinando Casini con 95 voti a favore e 38 contrari. I senatori di M5S, Lega e Fi non votano: i pentastellati si dichiarano “presenti non votanti”. I senatori presenti in Aula sono stati 192, 133 i votanti e la maggioranza 67. Lo ha detto in Aula al Senato la presidente Maria Elisabetta Casellati riferendo l’esito della votazione sulla fiducia al premier Draghi.

Ma i numeri sono troppo esigui e Draghi potrebbe decidere di salire al Quirinale già domani mattina. Prende corpo l’ipotesi di elezioni anticipate e la data potrebbe essere quella del 2 ottobre.

Prima della votazione. “Ma così manca il numero legale”. La presidente del Senato, Elisabetta Casellati, si è rivolta così al segretario generale di palazzo Madama dopo che la capogruppo M5S, Mariolina Castellone, che ha dichiarato in aula che i pentastellati non parteciperanno al voto. Lega, Forza Italia e M5s hanno annunciato in Senato che non parteciperanno al voto di fiducia, si va verso le dimissioni del premier.

Risoluzione Casini. “Chiedo che venga posta la fiducia sulla proposta di risoluzione presentata dal senatore Casini”. Cosi il presidente del Consiglio Mario Draghi in apertura della replica seguita alla discussione generale al Senato dopo le comunicazioni fiduciarie. La risoluzione presentata dal Pier Ferdinando Casini recita: “Ascoltate le comunicazioni del Presidente del Consiglio, il Senato le approva”.

L’altra risoluzione presentata è quella depositata dalla Lega e poi firmata anche da Forza Italia e Udc. La risoluzione presentata da Pier Ferdinando Casini sarà votata per prima nell’aula del Senato, in quanto il governo su quel testo ha posto la questione di fiducia. La risoluzione recita: ” Il Senato, udite le comunicazioni del presidente del consiglio dei ministri, le approva”. Non si voterà, invece, sulla risoluzione presentata dalla Lega, che è molto più estesa di quella dell’ex presidente della Camera.

Quello di mercoledì 20 luglio è il giorno della verità per il governo Draghi dopo la crisi politica innescata dal Movimento 5 Stelle, che la settimana scorsa in Senato non aveva votato la fiducia al governo sul decreto Aiuti. E proprio l’aula del Senato è il teatro della resa dei conti: il presidente del consiglio ha parlato a Palazzo Madama alle 9.30 non confermando le proprie dimissioni, presentate qualche giorno fa ma subito respinte dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

“In questi mesi – ha detto Draghi in Parlamento – l’unità nazionale è stata la miglior garanzia della legittimità democratica di questo esecutivo e della sua efficacia. Ritengo che un presidente del consiglio che non si è mai presentato davanti agli elettori debba avere in Parlamento il sostegno più ampio possibile. Questo presupposto è ancora più importante in un contesto di emergenza, in cui il governo deve prendere decisioni che incidono profondamente sulla vita degli italiani. L’amplissimo consenso di cui il governo ha goduto in Parlamento ha permesso di avere quella “tempestività” nelle decisioni che il presidente della Repubblica aveva richiesto. A lungo le forze della maggioranza hanno saputo mettere da parte le divisioni e convergere con senso dello Stato e generosità verso interventi rapidi ed efficaci, per il bene di tutti i cittadini”.

La trascrizione integrale del discorso

Il video integrale dell’intervento di Draghi in Senato:

Il premier ha poi rivendicato i risultati più rilevanti del governo, come quello di aver avviato “un percorso di riforme e investimenti senza precedenti nella storia recente”, sottolineando inoltre come sia stata superata la fase più acuta della pandemia e si sia dato slancio alla ripresa economica.

Ma il voto di giovedì scorso, ha aggiunto Draghi, “ha certificato la fine del patto di fiducia che ha tenuto insieme questa maggioranza. Non votare la fiducia a un governo di cui si fa parte è un gesto politico chiaro, che ha un significato evidente. Non è possibile ignorarlo, perché equivarrebbe a ignorare il Parlamento. Non è possibile contenerlo, perché vorrebbe dire che chiunque può ripeterlo. Non è possibile minimizzarlo, perché viene dopo mesi di strappi e ultimatum. L’unica strada, se vogliamo ancora restare insieme, è ricostruire da capo questo patto, con coraggio, altruismo e credibilità”.

Tutto questo, ha concluso il presidente del consiglio, “richiede un governo che sia davvero forte e coeso e un Parlamento che lo accompagni con convinzione, nel reciproco rispetto dei ruoli. All’Italia non serve una fiducia di facciata, che svanisca davanti ai provvedimenti scomodi. Serve un nuovo patto di fiducia, sincero e concreto, come quello che ci ha permesso finora di cambiare in meglio il Paese. I partiti e voi parlamentari – siete pronti a ricostruire questo patto? Siete pronti a confermare quello sforzo che avete compiuto nei primi mesi, e che si è poi affievolito? Sono qui, in quest’aula, oggi, a questo punto della discussione, solo perché gli italiani lo hanno chiesto. Questa risposta a queste domande non la dovete dare a me, ma la dovete dare a tutti gli italiani”.

Dopo il dibattito parlamentare sulle comunicazioni del premier, iniziato alle 11 e che durerà per cinque ore e mezza, alle 18.30 senatori e senatrici saranno chiamati a confermare o a negare la fiducia al governo.

Un voto dall’esito tutt’altro che scontato, visto che le posizioni dei partiti che fanno parte dell’attuale maggioranza sono molto sfaccettate e che anche all’interno dello stesso soggetto politico convivono diverse anime e spinte di segno opposto. Non fa eccezione naturalmente il Movimento 5 Stelle, già scosso poche settimane fa dalla scissione del suo ex capo politico e attuale ministro degli esteri Luigi Di Maio, che ha fondato il nuovo gruppo “Insieme per il futuro” portando via ai Cinque Stelle oltre una sessantina di parlamentari: i pentastellati, dopo giorni di roventi discussioni interne, sembrano arrivati all’appuntamento decisivo ulteriormente spaccati, e non è esclusa una nuova scissione tra i cosiddetti “governisti” e chi vorrebbe invece togliere il sostegno all’esecutivo per passare all’opposizione.

Nel frattempo è arrivata a oltre 1.600 firme la lettera-appello per chiedere a Draghi di restare alla guida del governo: la petizione, lanciata inizialmente dai sindaci di grandi città come Firenze, Venezia, Milano, Genova, Bari, Bergamo, Torino e Roma, è stata poi sottoscritta via via da altre centinaia di primi cittadini di ogni appartenenza politica, e secondo i promotori potrebbe salire a quota 2.000 prima del voto di fiducia odierno.