Monoculture e monocolture appartengono al tempo del pensiero unico, quello che ammette una sola professione di fede, una sola politica, una sola economia, un solo progresso
(Massimo Angelini)
Venerdì 13 marzo alle ore 21 al Centro Sociale Rosta Nuova di Reggio si parlerà di agricoltura biodinamica e buona alimentazione.
Sappiamo tutti quanto il biologico e la sana alimentazione siano oggi al centro della comunicazione mainstream e pensando a come raccontare di questo appuntamento, mi sono accorto di come gli argomenti maggiormente pop siano in realtà a forte rischio di usura, logorati dal marketing del biologico e dalla retorica del salutismo. Allora la prenderò un po’ alla lontana, perché le cose importanti non sono mai semplici.
Non che ci pensi tutti i giorni, ma sono almeno vent’anni che ogni tanto mi sorprendo a rileggere quel passo di una conferenza di Heidegger (1949) dove si dice: “Ora l’agricoltura non è nient’altro che industria alimentare meccanizzata, nella sua essenza la stessa cosa della fabbricazione dei cadaveri nelle camere a gas e nei campi di sterminio, la stessa cosa del blocco e dell’affamamento dei paesi, la stessa cosa della fabbricazione della bomba all’idrogeno.” (Das Ge-stell, in Gesamtausgabe, Bd. 79, Frankfurt 1994, p. 27).
Cosa significa “nella sua essenza la stessa cosa”? Cosa possono avere da spartire la produzione industrializzata di cibo (che serve alla vita) con la pianificazione della morte o la produzione di oggetti fatti per dare la morte?
Queste attività sono tutte rese possibili dalla tecnica che non è semplicemente un prodotto della civiltà, ma la sistematica riduzione delle cose a risorse, cioè la trasformazione di esse in mezzi di riserva per la produzione. In tal modo le cose vengono svuotate del loro vero senso, dimenticano il loro vero essere, in un movimento paradossale ed enigmatico: ambivalenza, rivelazione e occultamento dell’essere sono la cifra del dispositivo tecnico che si fa pensiero delle cose in termini di risorse.
Così capitò che la IG Farben, di cui faceva parte la Bayer produttrice di aspirine, fosse la fornitrice del tristemente famoso Zyklon-B, la sostanza utilizzata nelle camere a gas dei lager nazisti.
I Greci antichi (non i filosofi che già rappresentano una decadenza della capacità intuitiva, ma i sofòi iniziati), che già avevano capito tutto per il diretto rapporto con il divino, crearono il mito di Prometeo per rendere comprensibile questa ambivalenza.
Prometeo (colui che pre-vede) aveva un fratello, Epimeteo (colui che vede-dopo) il quale, dopo aver distribuito a tutti gli animali le facoltà specifiche che avrebbero garantito loro la sopravvivenza, si accorse (proprio perché vede-dopo) di averle terminate proprio nel momento di farne dono all’uomo, rimasto così “nudo, scalzo, scoperto e inerme”. Gli uomini erano quindi in totale balìa delle forze della natura e dei capricci degli dèi, con un orizzonte di vita e di senso circoscritto tra cielo e terra. Prometeo allora rubò a Efesto e ad Atena la loro sapienza tecnica insieme al fuoco e li donò agli uomini, rendendoli, come dice Eschilo, “da indifesi e muti, assennati e padroni delle loro menti”.
Con la tecnica gli uomini si emanciparono dallo stato di natura e iniziarono il lento percorso della civiltà e del pensiero scientifico. Finalmente erano liberi, potevano ottenere da soli quanto prima chiedevano agli dèi e violare le condizioni poste dalla natura per procurarsi cibo. La libertà tuttavia ha un prezzo: Prometeo venne incatenato da Zeus ad una roccia, alla materialità inorganica, mortifera. Un’aquila ogni giorno gli divorava il fegato (antica sede della volontà) che di notte era destinato, in eterno, a riformarsi, così come i desideri legati al soddisfacimento dei beni materiali divorano l’uomo, senza mai appagarlo veramente. Emancipandosi con tecnica e pensiero, l’uomo ha dunque perduto il legame col divino e la natura, incatenandosi però alla materia (al pensare, in termini materialistici, l’essere come risorsa). D’ora in poi l’uomo non trarrà più i suoi pensieri dal mondo divino-spirituale ma li formerà lui stesso, nella sua interiorità.
Gli antichi vedevano un limite in questa emancipazione, quando proprio Prometeo rincuora lo spettatore della tragedia di Eschilo: “La tecnica è di gran lunga più debole della necessità”, ricordandogli quanto le leggi e la morale artificiali (perché prodotte dall’uomo e non più rivelate o imposte dal dio) rimanevano tuttavia sottoposte al nòmos naturale, in quel momento ancora prevalente.
Possiamo dire la stessa cosa oggi? Certamente no. La tecnica moderna, con una fenomenale accelerazione nell’ultimo secolo, ha sovvertito l’equilibrio antico: la natura non è più orizzonte, non esiste più il limite posto dalla necessità di natura, ma viviamo una ridefinizione continua del vincolo, secondo convenzione, utilità, convenienza, calcolo. L’umanità che progetta (in quest’ottica il pro-iectum è un atto massimamente prometeico) si svincola dalle finalità e dalle attese che tuttavia ci prefiguriamo, come chiaramente ci dice Umberto Galimberti: “La tecnica non salva, non redime, non svela verità, la tecnica funziona e, siccome il suo funzionamento diventa planetario, sarà nostro compito rivedere i concetti di salvezza, redenzione, verità, ma anche quelli di identità, libertà, senso, scopo, di cui si nutriva l’età pre-tecnologica e che ora dovranno essere riconsiderati, aboliti o rifondati dalle radici”.
Pensare le cose come risorse è l’esito progressivo di un pensiero prometeico che libera l’uomo dalla necessità ma contemporaneamente lo incatena ad un pensiero analitico e materialistico (e dunque scientifico) che perde la capacità di pensare l’essere come uno (il tutto che ho di fronte: Gegenstand), ma come somma di parti ognuna delle quali è risorsa e oggetto (Objekt): il medico non cura l’uomo ma l’organo così come l’astronomo non osserva il cielo ma guarda le immagini di un telescopio elettronico oppure legge i dati di un computer. Le scienze pure frammentano il mondo e le scienze umane (nella loro pretesa di essere scienze) frammentano l’uomo: è l’era della specializzazione, della divisione.
Walk warily, walk warily, be careful what you say:
because now the Sunderers are hovering round,
the Dividers are close upon us, dogging our every breath
and watching our every-step,
and beating their great wings in our panting faces.
(D. H. Lawrence)
Non si tratta ovviamente di negare la scienza o di perseguire stupide battaglie di retroguardia in memoria dei buoni vecchi tempi andati (che migliori certo non erano). Si tratta piuttosto di riconoscere i grandi progressi della scienza e della tecnica mettendoli a frutto con pensieri nuovi, illuminandoli con un pensiero vivente e non solo meramente calcolante.
Il cibo spazzatura non è altro che il risultato ultimo di un pensiero spazzatura.
Se abbiamo a cuore il destino del pianeta e dell’uomo, se vogliamo prenderci responsabilità verso il futuro servono nuove alleanze tra le discipline che hanno a che fare con la terra e con l’uomo: tra agricoltura e scienza, agricoltura e diritto, agricoltura e cultura. Rudolf Steiner, nel 1924, diede impulso a questo nuovo modo di “pensare pensieri” anche in agricoltura. Venerdì prossimo Carlo Triarico, presidente dell’Associazione per l’Agricoltura Biodinamica, ci parlerà di come i tempi siano ormai maturi perché queste nuove alleanze possano diventare concrete.
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Amara e splendida analisi che dovrebbe arrivare alle alte sfere!
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