Ventinovesima Domenica del Tempo Ordinario, Anno B – 21 ottobre 2018
Dal Vangelo secondo Marco (Mc 10,35-45)
In quel tempo, si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra».
Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».
Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».
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La parola “riscatto” è molto forte: da una parte “i molti”, che evidentemente sono schiavi di un potere nemico dell’uomo; dall’altra “l’Uno”, che li libera a prezzo della sua vita. Quale differenza rispetto alla visione moralistica dell’uomo, secondo la quale egli è capace di distinguere il bene dal male e di sceglierlo!
L’uomo, al massimo, può desiderare il bene, ma non è in grado di compierlo. L’ottimismo razionalista e scientista è ferito al cuore: la storia è un grande dramma e il dolore, la guerra, la malvagità non sono un momento dialettico di un cammino progressivo, ma un peso opprimente, che produce sofferenza, e rispetto al quale tutti vengono coinvolti in complicità inevitabili.
La visione cristiana, che trova riscontri nell’ebraismo, è che il male del mondo è portato dall’Innocente, col quale Dio si identifica, e misteriosamente è proprio quella sofferenza che crea spazi di libertà per tutti, anche per gli ingiusti.
Nella tradizione chassidica (il chassidismo è un movimento spirituale ebraico, sorto nel 1750 nella Polonia orientale) si parla dei “Lamed Vav”: “Secondo la nostra tradizione, il mondo poggerebbe su trentasei giusti chiamati i Lamed Vav. Nulla distingue questi Lamed Vav dagli altri uomini. Sovente non si conoscono nemmeno tra di loro. Ma se mai venisse a mancarne uno solo, la sofferenza degli uomini avvelenerebbe persino il cuore dei bambini, e l’umanità intera soffocherebbe in un grido. Infatti i Lamed Vav sono il cuore moltiplicato del mondo, e in loro confluiscono tutti i nostri dolori, come in un ricettacolo… Quando un giusto, un Lamed Vav, sale al cielo, è tanto ghiacciato che Dio deve scaldarlo mille anni tra le sue dita prima che la sua anima possa aprirsi al paradiso. E si sa che molti di loro rimangono per sempre inconsolabili per il dolore umano, tanto che nemmeno Dio riesce a scaldarli. Allora, di tanto in tanto, il Creatore sposta avanti di un’ora l’orologio del giudizio universale…”, così dice il rabbi Nachman di Bratslav.
Secondo i rabbi, nessun Lamed Vav sa di esserlo, quindi ogni ebreo potrebbe essere un Lamed Vav; dunque, egli è tenuto a comportarsi come se lo fosse. Questo vale anche per i cristiani, che peraltro ritengono che i Lamed Vav, i Trentasei, siano anch’essi portati dall’Aleph, l’Uno, da “Colui che era in principio”.
Proprio l’esempio di Gesù ci aiuta a uscire da una certa retorica del servizio, nella quale noi cristiani occidentali rischiamo di cadere, con le migliori intenzioni. Dire che la norma dell’agire cristiano nel mondo è il servizio significa spesso che noi pensiamo alla nostra vita come a un progetto, come qualcosa che noi possiamo orientare secondo i nostri valori e i nostri ideali.
Di fatto, questo è un lusso che soltanto pochi possono permettersi. La stragrande maggioranza degli uomini ha un margine di scelta molto ridotto. Ecco perché Gesù “è venuto” per servire: l’espressione indica una chiamata, quella di Dio: il servizio è prima di tutto il consegnarsi alla sua volontà, che si manifesta nella realtà ordinaria di tutti i giorni, nelle responsabilità famigliari, nei doveri quotidiani, nei limiti e nelle sofferenze della vita.
Questa obbedienza non è quella al “karman” indù, al destino anonimo di ciascuno. Essa è piuttosto la consegna del proprio progetto a un progetto più alto: il valore sta nella fede e nella carità, nel portare il peso degli altri uomini che ci vengono affidati, nell’offerta della fatica, della sofferenza, della malattia, della vecchiaia, della morte stessa, come partecipazione all’intercessione di Gesù.
Certo, qualcuno – anche tra i cristiani – viene chiamato a posizioni di responsabilità sociale, economica o politica, riceve un potere, piccolo o grande che sia, che gli viene affidato per il bene comune, a cominciare da quello dei fratelli più bisognosi. Ma questo potere lo “riceve”; le modalità possono essere le più varie, ma in definitiva egli riceve questo potere da Dio ed è a Lui che egli deve rispondere.
Quanto più questo potere gli giunge in modo casuale, tanto meglio è: Dio non ha bisogno delle strategie degli uomini; anzi, troppo spesso l’attaccamento ai nostri progetti umani ci espone alla seduzione dell’Avversario: “Il diavolo condusse Gesù in alto, gli mostrò in un istante tutti i regni della terra e gli disse: Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo” (Lc 4,5-7).
Per “aiutare” Dio con i nostri progetti, rischiamo di giustificare quei compromessi che ci fanno diventare in realtà servitori del suo avversario: la Leggenda del Grande Inquisitore dice proprio questo. È facile sentirsi dire che solo chi non sceglie ha le mani pulite e che non si deve aver paura di mettere le mani nel fango della storia, se si vuole veramente aiutare il nostro prossimo. Mi pare però che l’esperienza, anche recente, insegni che spesso ci si rassegna un po’ troppo al fango, così da giungere persino ad amarlo.
Il criterio del servizio cristiano dev’essere la provvisorietà. Ripeto: può capitare che qualcuno sia chiamato, magari anche a posizioni di responsabilità. Guai però se egli si considera indispensabile o portatore di novità assolute. Un servo rimane al suo posto solo finché lo decide il padrone.
Dobbiamo far nostra la preghiera di Dietrich Bonhoeffer, che chiedeva al Signore di capire quand’era il momento della resistenza alla realtà, per cambiarla, e quando invece era necessaria la sottomissione agli eventi.
Nello specifico attuale del nostro Paese, colpisce una cosa: l’argomento del dibattito è come uscire dalla crisi. Nessuno però si pone il problema di quello che attraverso la crisi Dio ci vuole insegnare. Ai politici cristiani si dovrebbe chiedere questo sforzo, senza paura dell’inevitabile accusa di moralismo. E le comunità cristiane e i loro responsabili dovrebbero aiutarli in questo compito: infatti la seduzione del potere è grande e va sanata con molta preghiera e grande umiltà. In più, con un costante rapporto con i poveri.
I poveri ci ricordano che la grande ricchezza di un Paese è il lavoro. Lo diceva, con la passione che conosciamo, ma anche con l’acume dello studioso e del politico, Giorgio La Pira. Questo principio è passato nel primo articolo della nostra Costituzione e dovrebbe essere la stella polare di chi è impegnato nella politica e nell’economia, ma anche di ogni cristiano.
Pensare alla propria vita come a un servizio, da rendere prima di tutto a Dio, libera l’intelligenza: fa vedere nei poveri una ricchezza, poiché proprio la loro povertà li rende disponibili a “pensare politicamente”, cioè in termini di bene comune. Chi conosce la sofferenza sa investire energie insospettate, per un progetto da costruire insieme. Non corrompiamo i poveri, rendendoli avidi con il nostro esempio di egoismo. Ricordiamo che i poveri sono i nostri difensori qui in terra e i nostri avvocati in cielo.
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