Alberto Franceschini (nella foto a sinistra con Renato Curcio), fondatore reggiano delle Brigate rosse, lo aveva già raccontato in un libro negli anni Ottanta: “Mi convinsi a entrare in clandestinità – scrisse – quando un vecchio partigiano mi regalò la pistola usata nella guerra di Resistenza per dire ‘ora tocca a voi completare il lavoro’”.
In quegli anni Franceschini era già stato arrestato e le Bierre avevano già derubato, ferito, sequestrato, assassinato e commesso stragi come quella del 16 marzo del 1978, quando Aldo Moro venne rapito da un commando brigatista in via Fani a Roma, insieme allo sterminio degli uomini di scorta.
Sarebbe stato sufficiente ascoltare Franceschini, il quale già negli anni Ottanta spiegava come il filo rosso che legava il comunismo rivoluzionario militante nella Resistenza e la creazione del partito armato che insanguinò il paese negli anni Settanta fosse lo sbocco naturale della lunga marcia del proletariato contro la borghesia, lo Stato corrotto delle multinazionali e il presunto fascismo reincarnato nella Democrazia cristiana. Ma questo a Reggio Emilia, culla della prima fase dell’organizzazione e canale principale di reclutamento di militanti, e in particolare nel Partito comunista che amministrava città e provincia, non fu mai accettato. Unica forma di reazione: omertà e oblio.
Lo si vede ancora oggi, e per questo non ci si stupisce, perché quell’omertà e quell’oblio nei quali si preferisce relegare quella vicenda storica, tanto pesante nella storia del Novecento italiano, conduce alla teoria dei “compagni che sbagliano” e su di essa si appoggia.
È ancora così, ed è da non credere, il primo maggio del 2022: un circolo Arci di Reggio dedito a musiche e balli ospita quattro soggetti in passamontagna che esaltano i simboli della lotta armata. Il presidente del circolo dichiara fiero di “essere un comunista”. Nello show del gruppo “P38” – anch’esso simbolo di violenza cieca e assassina – l’immagine della Renault 4 nella quale si trovò il cadavere di Moro.
Verrebbe da chiedere: c’è qualcuno in città? Un sindaco? Un esponente politico? Un titolare degli alti valori etici di cui la storia locale è peraltro riuscita spesso a dare prova?
No, non c’è. Le forze politiche tacciono, o se parlano ipotizzano iniziative sconcertanti.
Il Comune, ormai cronicamente ammalato di infodemia, fa propaganda su tutto ma non riesce a pronunciare la parola “Brigate rosse”. E dire che nel municipio reggiano alberga da decenni una componente non clandestina, ma certa di non essere perseguita, formata da chi visse da ragazzo o da ragazza nella zona grigia tra collaborazionismo e militanza clandestina.
Le istituzioni avrebbero le carte in regola per aprire un dibattito pubblico e affidare, prima che sia troppo tardi, un’opera di ricerca storica a Istoreco. Ma nessuno vuole parlarne. Tace la politica, ormai in mano a una generazione assai carente in storia, sostanzialmente ignorante. Tacciono i più anziani, e non solo chi si autoproclama “comunista rivoluzionario”. Tacciono persino i cattolici post Dc che oggi fanno parte del Pd: neppure sulle Bierre gli eredi politici di Moro riescono a esprimere una posizione politica chiara, nel timore di contraccolpi correntizi.
Occorre essere chiari: l’omertà, prima o poi, è destinata a essere sconfitta. L’ambiguità con cui Arci sta affrontando il caso Tunnel (un tunnel da cui non si vede la luce) sta provocando un serio problema di immagine a livello nazionale.
La cancel culture che vorrebbe dimenticare gli anni di piombo, quasi che essi fossero stati una mera e marginale deviazione nella lunga marcia della sinistra, e la singolare circostanza che la piccola Reggio Emilia vi avesse dato i natali, punta a azzerare la consapevolezza di noi stessi, di chi siamo e da dove veniamo, osservando lucidamente i momenti gloriosi e quelli orribili, senza paura e senza ambiguità. Forza, forse siamo ancora in tempo.
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Amara e splendida analisi che dovrebbe arrivare alle alte sfere!
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