A cosa serve il Giubileo

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Ogni venticinque anni, la Chiesa celebra il Giubileo. Che cosa sia e a che cosa serva, non è sempre chiaro e spesso ci si ferma agli aspetti esteriori del pellegrinaggio; oppure, lo si considera un evento interno alle comunità cristiane, che poco ha da dire alle altre religioni e ancora meno a chi credente non è. Dovremmo avere occhi diversi, soprattutto in questa occasione, perché l’intento del Papa, nell’annunziarlo, è quello di orientare l’umanità alla speranza. Sembrerebbe ingenua illusione, ma forse non è così.

Il Giubileo ha come scopo l’ottenimento dell’indulgenza. Essa non è il perdono dei peccati: per questo, c’è un sacramento, la Riconciliazione, la Confessione. Non è neppure un’amnistia, anche se molti suggeriscono che essa sia opportuna e coerente con gli scopi del Giubileo. Allora, che cos’è l’indulgenza? Per comprendere, dobbiamo avere una visione del male, che sia meno superficiale. Il male può essere perdonato, e ci sarebbe molto da dire anche su questo. Tuttavia, esso lascia dietro di sé enormi macerie spirituali: lo spettacolo spettrale di Gaza e del Donbass è l’immagine di macerie ancora più avvelenate, che attossicheranno il mondo ben oltre la ricostruzione degli edifici. Anche chi vorrà sinceramente costruire la pace, sarà tentato di arrendersi. Per questo, è necessario cercare le ragioni della speranza, trovare i modi con i quali gli uomini di buona volontà possano annunciarla reciprocamente.

L’indulgenza è proprio una grazia, un dono spirituale, per ricominciare, per non arrendersi al male, per ricostruire la speranza. Non è la celebrazione del potere ecclesiastico, ma è una grande, corale preghiera, nella quale chiediamo la guarigione, la nostra, anzitutto. Per questo, è importante seguire l’esempio di Giovanni Paolo II, che nel Grande Giubileo dell’anno 2000, ha voluto un esame di coscienza e una richiesta di perdono, che coinvolgessero tutta la Chiesa.

Secondo me, dovremmo fare qualcosa di simile, anche in questa occasione. La richiesta di perdono dovrebbe essere sia pubblica e comunitaria, sia personale. Voglio insistere su questo secondo aspetto. Va ripensato il nostro rapporto con il Sacramento della Riconciliazione. E’ possibile, infatti, che ci sia una confessione senza conversione. La conversione è la sincerità con noi stessi, il riconoscimento dei nostri peccati, ma anche più in profondità. le radici del male che sono in noi. Solo questo sguardo sincero ci può condurre all’azione, a un’azione rinnovata e rinnovante, perché –non dobbiamo dimenticarlo- la conversione ha una dimensione e un effetto sociali, comunitari.

Concretamente, viene suggerito di far precedere il pellegrinaggio da una buona confessione; altrimenti, che differenza ci sarebbe tra il pellegrinaggio e una gita? La confessione è un momento di verità, nel quale rinunciamo alle scuse che spesso ci concediamo. Siamo aiutati da un fratello e riscopriamo ciò che la Chiesa veramente è, popolo di Dio in cammino. Chi cammina, vuol dire che ha una meta o, almeno, che sta esplorando, che, nonostante le cadute, spera: e, siccome conosce la propria debolezza, sarà più compassionevole verso la debolezza altrui.
Infatti, qual è la ragione della speranza? San Paolo scrive: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8,35.37-39). Vedremo come ogni uomo, anche chi non crede, possa trovare consolazione in queste parole.




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