Giovedì 10 febbraio sono state rese note le motivazioni della sentenza con cui il giudice dell’udienza preliminare del tribunale di Reggio Dario De Luca ha condannato a 4 anni di carcere (con il rito abbreviato) Claudio Foti, lo psicoterapeuta titolare dello studio di cura torinese “Hansel & Gretel”, per abuso d’ufficio e lesioni gravissime (ipotesi di reato formulata per la presunta alterazione psichica di una paziente) nell’ambito del processo “Angeli e Demoni”, l’inchiesta nata per far luce sulle presunte anomalie negli affidamenti di minori nel sistema dei servizi sociali della Val d’Enza reggiana.
Motivazioni che sono state molto criticate dall’avvocato Giuseppe Rossodivita, legale difensore dello stesso Foti: “Si tratta di una sentenza straordinariamente breve in relazione alle molteplici questione controverse in fatto e in diritto che ha posto il processo (basti pensare che il pubblico ministero ha depositato una memoria di 278 pagine per supportare le sue accuse), e la brevità non è qui sinonimo di chiarezza, quanto piuttosto di un esame solo sommario dei fatti e delle questioni giuridiche sul tavolo, maldestramente risolte”.
Secondo l’avvocato Rossodivita “traspare evidente una pregiudiziale, apodittica e convinta (e per questo poco convincente) adesione alle tesi dell’accusa, una costante e fuori luogo denigrazione della difesa e dei suoi consulenti, piuttosto che una confutazione delle argomentazioni e dei rilievi posti durante tutto il corso del processo”.
“L’approccio “sereno” del tribunale lo si può plasticamente cogliere allorquando nega al dottor Foti le circostanze attenuanti generiche perché afferma, senza alcun fondamento, che vi sarebbe stata la volontà di ingannare il giudice con la produzione di un video di una seduta di novembre del 2016, spacciandola per una di aprile 2016. Si è trattato invece di un banale errore materiale nell’indicazione della data della seduta, immediatamente riconoscibile per via dell’abbigliamento dei protagonisti del video e quindi incapace di ingannare chiunque, e prontamente riconosciuto come tale in sede processuale. Poi in sentenza ci troviamo scritto che sarebbe stato un tentativo di ingannare il giudice. Davvero senza commenti”.
Di questa sentenza, in ogni caso, “si occuperanno i giudici della Corte d’Appello di Bologna”, ha preannunciato il legale difensore di Foti, “ma quel che più preoccupa è proprio il substrato culturale che ha animato il giudizio. Qui c’è un padre che ha abbandonato la famiglia, un padre violento, un padre che ripetutamente non ha creduto alla figlia, come affermato dalla madre, un padre che ha denigrato la figlia quando, bambina di 13 anni, ha avuto un rapporto sessuale “presumibilmente non consenziente”, com’è scritto in sentenza; e però la colpa di Foti sarebbe quella di aver agito per far aprire gli occhi e la mente alla figlia, giunta alla soglia dei 18 anni, provocando per questo, con le sue terapie viste come denigratorie della figura paterna, l’insorgenza di una sindrome di borderline diagnosticata da una psicologa, non psicoterapeuta, non psichiatra, che non ha nemmeno somministrato i rituali test”.
“Per il tribunale di Reggio e la sua consulente dottoressa Rossi il pater familias non può mai essere messo in discussione e va comunque onorato e rispettato”, ha concluso l’avvocato Rossodivita: “C’è tanta strada da fare e non basteranno le giornate contro la violenza sulle donne o lo stracciarsi le vesti di fronte a fatti come quelli accaduti a Capodanno in piazza del Duomo a Milano. Fin quando non si farà strada l’effettiva idea che la donna, anche nei suoi percorsi di crescita adolescenziale, è portatrice di una propria autonoma identità ed è autonomamente titolare di quei diritti disegnati dall’art. 2 della Costituzione, al pari dei “maschi” e al pari del pater familias, non ci dobbiamo sorprendere di tutti i casi di violenza che poi leggiamo in cronaca”.
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Amara e splendida analisi che dovrebbe arrivare alle alte sfere!
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